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India, la grande scommessa. Sulle opzioni

I risparmiatori indiani, travolti dalla febbre del trading in opzioni, ingrassano i grandi broker, soprattutto occidentali, e le casse pubbliche. Ma il fenomeno sta assumendo contorni di vera e propria ludopatia.

L’India è un paese di grandi numeri. Ora che la sua economia è vicina all’ennesimo decollo, il mercato azionario ha preso diligentemente nota: l’indice Nifty 50, il più noto, è ai massimi storici. Negli ultimi dieci anni, ha prodotto un ritorno medio annuo del 14,8 per cento, circa tre punti percentuali più dell’indice statunitense S&P 500.

I risparmiatori indiani hanno tradizionalmente puntato su oro e immobiliare: solo il 7 per cento delle famiglie indiane risultano investite sul mercato azionario, contro il 40 per cento del Brasile e il 50 per cento di Cina e Stati Uniti. Ma ora le cose stanno cambiando, in un modo talmente precipitoso e con una vera e propria FOMO (Fear of Missing Out), che sta spingendo i risparmiatori indiani non solo sulle azioni ma anche e soprattutto sui derivati sulle medesime. Su un tipo, in particolare.

LA BORSA FIUTA L’AFFARE

La borsa ha fiutato il grande affare e ha introdotto nuovi prodotti di ridotto costo unitario, tipicamente le opzioni e, ancor più caratteristicamente, quelle a scadenza brevissima, dell’ordine di una settimana. Il retail si è tuffato su questi prodotti, facendo esplodere i volumi. Secondo stime della Futures Industry Association, organizzazione globale di settore, lo scorso anno l’India è stato il mercato dove è stato trattato il maggior numero di contratti di opzione al mondo, soprattutto su indice azionario. Circa l’84 per cento del totale mondiale, contro il 15 per cento di un decennio addietro. Il 35 per cento del trading sul mercato azionario indiano è fatto dal retail. In particolare, finora, da giovani.

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Le opzioni, come noto, sono uno strumento che dà al possessore il diritto ma non l’obbligo di comprare o vendere una attività finanziaria, singolo titolo o indice, per un dato prezzo di esercizio, il cosiddetto strike, entro una data futura o esattamente a una data futura. Quando il prezzo di esercizio è molto distante da quello corrente di mercato, a parità di ogni altra condizione, le opzioni possono costare molto poco. Sul loro prezzo incide poi la volatilità implicita dello strumento sottostante, il tasso d’interesse e la scadenza. Il tempo medio di possesso di una posizione in opzioni è inferiore a 30 minuti, secondo dati forniti da un distributore di fondi comuni locale.

È quindi evidente che il loro prezzo contenuto spinge al trading, spesso compulsivo, quote crescenti di risparmiatori. Senza spingersi in eccessive tecnicalità, sarebbe ulteriormente opportuno distinguere tra posizioni lunghe e corte in opzioni. Le prime limitano effettivamente la perdita massima al prezzo pagato per acquisire il diritto di comprare (call) o vendere (put) lo strumento sottostante. Se invece parlassimo di posizioni corte, la perdita teorica potrebbe essere illimitata, e in quel caso le borse metterebbero degli opportuni guard rail come la marginazione e la chiusura obbligatoria delle posizioni, oltre dati limiti di perdita.

TRA APP E FIN-INFLUENCER

Anche focalizzandoci sulle sole posizioni lunghe, quelle che “costano poco”, si comprende il potenziale di gamification o meglio di vera e propria ludopatia che può cogliere i risparmiatori. E infatti i numeri sono piuttosto sanguinosi: il Securities Exchange Board indiano, un regolatore, ha stimato che nove risparmiatori indiani su dieci perdono in media annua l’equivalente di 1.500 dollari, pari a sei mesi di stipendio medio di un indiano delle aree urbane. Il Pil pro capite indiano è di 2.300 dollari. Tale stima è contestata da alcuni broker.

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Il mix ludopatico è completato dal florilegio di app di trading e dall’attività sui social degli influencer finanziari, che ora le autorità stanno cercando di regolare e reprimere. Secondo la legge indiana, solo gli analisti registrati possono formulare raccomandazioni di investimento. Ma si è sviluppato un fiorente mercato di “corsi” di trading, sui social e su piattaforme più “riservate” come Telegram, che sconfinano facilmente in raccomandazioni di compravendita, spesso promosse da “fininfluencer” che hanno un crescente seguito. I broker pagano commissioni agli influencer per indirizzare clienti verso le proprie app.

Tale è il boom di queste speculazioni da divano, che molti soggetti stanno facendo affari miliardari. Le case di trading occidentali, ad esempio. O le borse locali: quella di Mumbai in termini commissionali guadagna ormai dal trading in derivati una somma equivalente a quella che ricava dalle transazioni per contanti. O le casse pubbliche indiane, con la tassazione delle operazioni. Come sempre, e dalla notte dei tempi, lo sciocco e i suoi soldi si separano presto. Questo è il nome del gioco.

Photo by BSEINDIA – Opera propria, CC BY-SA 3.0

Questo articolo è stato pubblicato qui

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