• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > (In)ter(per)culturando: piccole, grandi storie di ieri e oggi, senza (...)

(In)ter(per)culturando: piccole, grandi storie di ieri e oggi, senza confini - II

’Citomegalovirus’ di Hervé Guibert, Bollati Boringhieri, collana Varianti, prima edizione: settembre 1992. Traduzione di Alfredo Salsano.

 

Hervé Guilbert, è morto nel 1991, aveva trentasei anni.
In questo che oggi, nel 2010 almeno in Italia neanche sarebbe considerato ‘un libro’, si seguono i fili di alcuni di quei pensieri, ragionamenti, registrazioni che Guilbert ha fatto durante l’ultima degenza ospedaliera per curare il citomegalovirus, effetto e non malattia di un’altra ben peggiore quale l’Aids.
Giulbert scrive a ruota libera, quando e come può perché il citomegalovirus (in fondo link da wikipedia) gli ha intaccato gli occhi. Ma lo fa con acutezza, consapevolezze altalenanti, ironia.
A volte sono frasi brevissime. Oppure periodare che tratteggiano un accadimento appena vissuto tra infermiere di vario tipo (distratte, maleducate, stanche, irose, bugiarde, false, sadiche ma mai ‘buone’ nella declinazione di caritatevoli, comprensive e rispettose dell’umano), altri malati in galleggiamenti instabili tra lamenti, urla, decessi e brusii. Poi c’è la camera. Ci sono sporcizia, cannule da inserire, vene da trovare, immobilità, un intervento da fare poi sopportare, padelle da chiedere, passi da fare o da sognare.

Non è un romanzo, ma non è neanche un diario.
E’ la scrittura che impedisce la caduta, io credo. Esattamente come, in altro modo, lo stesso autore scrive.
E’ il vomitare tutto ciò che se trattenuto all’interno corroderebbe le interiora. Ed è una miscela grumosa, poliforme, dolorosa quanto pulsante.

E’ un oggetto-libro piccolissimo, neanche 70 pagine del formato piccolo della collana ‘Varianti’ di Bollati e Boringhieri (traduzione di Alfredo Salsano). La prima edizione è del settembre 1992, in Italia questo lascito è arrivato nove mesi dopo la sua morte, pressappoco. Una gestazione.

“… e per il suo modo di guardarsi e di continuare a guardare il mondo, Hervé Guibert fa parte, come egli avrebbe voluto, degli scrittori che <fanno del bene>”. Si legge nel risvolto di copertina.
Quest’uso in antitesi di bene-male entro una scrittura che narra la discesa verso la morte meriterebbe ben più d’un appunto.

Scrivere di morte, con la consapevolezza che la morte sta arrivando, si mangia il corpo; è bene? Fa del bene?
Probabilmente l’unica risposta sensata è: dipende (da come si scrive, da cosa, dagli approcci, i sensi, gli eventuali messaggi…)
Guibert non scrive della morte, in realtà, ma di quel lento, incerto, ostacolato transito verso. E non lo fa entro i confini narrativi. Non lo fa avvalendosi di personaggi, scene, dialoghi, snodi. Semplicemente vomita ciò che ha dentro di sé. E lui, è ciò che è, vive, memorizza, incamera, il materiale melmoso da cui poi tira fuori parole, ragionamenti, periodare.

Qui la storia è la sua storia. Non è un’operazione di trasmutazione, non c’è romanzo del Sé per dirla alla Forest. Eppure mi resta il sapore mutevole, retrogusto variabile, di qualcosa che non è neanche ‘autobiografia pura’. Guibert sceglie di oscurare i nomi, le persone che attorno gli ruotano, gli affetti, restano lettere maiuscole puntate, possono diventare chi vuole il lettore (un amico, un amante, un parente, un conoscente, un vicino…). Allo stesso modo si avverte il salto, il tentativo di appoggiare i piedi sul gradino successivo: trasformare esperienze vissute in prima persona in qualcosa che non è solo intimamente soggettivo ma appartiene a tutti al di là delle singole e volatili azioni personali.

Oppure. Semplicemente. Questo libro, piccolo e spezzato, non è altro che il bastone.
A cui si è aggrappato l’autore, costruendoselo piano piano, frase dopo frase, per continuare a sentire i respiri della vita senza perderne troppi sensi, incedendo verso la morte.

[di seguito alcuni estratti]

Scrivere è anche un modo per ritmare il tempo e farlo passare.

In un primo tempo si riceve il gran pugno nello stomaco, è comunque la tristezza, la disperazione, ci si sforza di non piangere. Poi si cercano argomenti che possano sostenere il riflesso di vita. E’ pericoloso passare all’euforia perché di lì si rischia di passare al crollo.

Inoltre, con un colpo di testa, ho smesso gli antidepressivi il 13 luglio, due mesi fa. Andava sempre peggio: bocca secca, palpitazioni, dosi sempre più forti; mi sono detto: Proviamo, ora o mai più. Sono sull’isola d’Elba, non scrivo (la scrittura per me è sempre anche una sorta di antidepressivo), ma ci sono il silenzio, il mare, la presenza, i versi degli uccelli...

Non so se, con questo diario d’ospedale, faccio del bene o del male. Ho l’impressione che vi siano gli scrittori che fanno del bene, Hamsun, Walser, Handke, e anche paradossalmente Bernhard nella dinamica del suo genio per la scrittura, e quelli che fanno del male, Sade naturalmente, Dostoevskij? Ora preferirei appartenere alla prima categoria.

Non direi che mi piacerebbe molto diventare cieco, ci sono stati di disperazione tali che li si rivolta come un guanto, ma è uno stato che non conosco e mi piace sempre infilarmi, fino all’estremo o al peggio, in situazioni sconosciute.

Letti abbastanza libri nella mia vita, scritti abbastanza?

T. ed io, non possiamo nemmeno più abbracciarci, come era così bello fare quando ci ritrovavamo. Di questi tempi sarebbe troppo melodrammatico.

Trasformare la tortura mentale (la condizione nella quale mi trovo, per esempio) in un oggetto di studio, per non dire in un’opera, rende la tortura un po’ più sopportabile.

Il capo del reparto rianimazione è passato con un’assistente e ha strappato con un gesto secco il tubo infilato nel mio polmone, collegato a una bombola di vetro piena di un liquido violetto, dove la mia espirazione e la mia tosse avrebbero dovuta fare delle bolle. Cinque minuti dopo, senza medicazione, un minuscolo punto rosso già secco sul mio torace, molto più piccolo del tubo che lo attraversava. I misteri del corpo.

[Alcuni stralci da ‘Citomegalovirus’ di H.Guibert, Bollati Boringhieri, settembre 1992]

 

Citomegalovirus da wikipedia.

--------------------------------------------------


’Anime belle’ di Lydie Salvayre, Bollati Boringhieri, collana Varianti, prima edizione: settembre 2002. Traduzione di L.Carrozzo, S.Di Pietro, T.Gambardella, S.Pecorini, A.Sessa, allievi della Scuola Europea di Traduzione Letteraria.

Sento già i rimproveri: non è questo il modo di chiudure un romanzo. Il bus è ancorato in strada, là nel bel mezzo di un’area di servizio. Il signor Boiffard ingoia uno sbadiglio. Sua moglie lo strapazza. Julien Flauchet è prostrato. Lafeuillade, più morto che vivo. E tutti gli altri, ciascuno per conto suo. Come happy end, è fallito!
Un’ultima parola, Olympe, prima di lasciarti. Mi mancherai. Già mi manchi. Mi manchi.
(pag.114)

E’ un errare, quello proposto da Lydie Salvayre, dove si entra direttamente nel flusso dei movimenti, nei personaggi che fanno, sono, dicono, pensano e si incastrano tra loro in un composto denso, intensissimo e talmente pulsante da procurare iniziali bruciori, tant’è ’vivo’ questo flusso narrativo.
La scelta del narratore è coraggiosa, originale e scatena un effetto ’onda d’urto’ col lettore, notevole perché lo rende parte dell’errare compulsivo, bulimico, fortemente soggettivo (egoistico, carnale) di ogni personaggio.
La forza delle parole, sputate, vomitate, decostruite, incastrate a imporre corpi, pensieri, azioni, logiche sta proprio nel non pretendere virtuosismi oziosi, nel rigettare espedienti stilistici stratificati per esigenze autompiacitive. La forza, è nella centrifuga.

Hai voglia di essere aperto, tollerante, progressista e tutto, certe maniere, alla lunga, finiscono per stancare.
Come a illustrare queste parole, Jason si soffia il naso in un fazzoletto sporco, facendo un gran rumore. Poi alza il bicchiere. Alla tua, Etienne! verso Lafeuillade. Che abbozza un sorriso contrito.
Ci si può fidare di esseri le cui maniere suscitano disprezzo?
La poverà non spiega tutto.
La povertà non scusa tutto.
La povertà non autorizza tutto.
La povertà, insomma, la spalle forti.
Solo l’autista, l’accompagnatore e quella piccola creatura, come si chiama già? mi dimentico sempre il suo nome, possono divertirsi a uno spettacolo di così bassa lega. Ciò dimostra che hanno dentro la stessa volgarità.
L’autista è un rozzo. Gli puzzano i piedi.
La piccola, ricordatemi il suo nome, è un’idiota.
(pag. 71)

Difficile l’ingresso alle vicende, il senso di vertigine, nausea, confusione è da subito pressante, fisico. Poi però diventa uno status, un andamento di respiri, ascolti, sequenze ondeggianti che si incastrano tra loro imperfettamente, a testa in giù a volte, eppure entro i sensi delle profondità celate dell’umano.

Un oggetto-libro curato, breve nella lunghezza, che invoglia alla lettura ’di corsa’ e mai come in questo caso tutto questo inganna: non c’è alcun intento ’glamour’ o alla moda, men che meno la ricerca della semplicità per aderire a schemi di mercato che cercano il ’facile’, lo standard da lettura che scivola giù senza troppi ostacoli.
Qui di ostacoli ce ne sono continuamente, nella lingua, nell’incedere frammentario, nelle voci, nel vomito-merda-miseria-disperazione-fine che questo romanzo è.
Un tour tra città europee alla ricerca delle povertà più infime, a senso unico. Un tour come oggi se ne fanno tanti tra cataloghi e agenzie di viaggio (oggi), una sorta di safari tra animali destinati da sempre a patire, e morire nella merda, nel puzzo, nella disperazione annegante. Una sorta di ’guida turistica’ nei luoghi abitualmente evitati, quelli divenuti interessanti per le ragioni opposte alle consuete ’vacanze’.
Partire, spostarsi, errare per entrare corpo e anima nell’immenso buco che c’è, in ognuno, in ogni luogo, che ha tanti nomi, dispregiativi eppure se ne esce ugualmente come ’anime belle’ laddove la bellezza non è perfezione o pretesa di esattezza entro contesti sociali, etici, morali, politici preconfezionati e uguali per tutti. Laddove la bellezza sta nel guardare e guardarsi per ciò che si è e si ha, miserie, dolori e mali compresi tra pelle e strade. La bellezza è scoprire, sul finale, che già si sente la mancanza del personaggio più bistrattato, fuori posto, disprezzato dall’amato, goffo, assurdo, inutile, marginale alla storia per ammissione diretta del narratore. Ed è una bellezza tenera, nuda e schietta come questo romanzo. Come la scrittura della Salvayre.

Dal canto suo la signorina Faulkircher si domanda se Flauchet non potrebbe essere, a ben riflettere, l’uomo della sua vita. In effetti, presenta tutte le principali caratteristiche dell’uomo della sua vita:
è celebre ma senza eccedere: si è costruito una piccola reputazione nell’ambiente letterario di Parigi nel V, VI e VIII arrondissement,
è colto (la signorina Faulkircher ha delle aspirazioni),
è celibe.
Inconveniente maggiore: parla sempre di letteratura. Una noia mortale! E non ha la patente (due sintomi spesso associati per quanto sia impossibile stabilire fra di loro un rapporto di causa-effetto). A coronamento del tutto, fuma sigarette mentolate, come i garzoni del parrucchiere! Particolare secondario: gli spuntano i peli dal naso.
(pag. 55)
----------------------
---------------------------------
Immagine: foto scattata da Bg, marzo 2010, Milano.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares