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(In)ter(per)culturando: Richard Yates

L’universo narrativo di Richard Yates (Yonkers, 1926 - Tuscaloosa, 1992) è popolato da uomini. (Solo) uomini e donne. Destinati a cadere, cercare, vagare, sperare ma per poco. Non ci sono ambizioni da supereroi, men che meno happy end a risollevare vite faticose, tra miserie, dipendenze, perdite, fughe.
 
Per molti decenni di Yates si è letto e scritto poco, in America prima che altrove. Nel 2001 il New Yorker pubblica due racconti. Ricomincia così la lenta, lunga strada di Yates verso i suoi lettori. Pare che un giorno ad Andre Dubus, Yates abbia confessato: non voglio soldi, voglio lettori. In effetti di soldi Yates ne ha visti e avuti ben pochi. Ma di scrivere impastando il proprio vissuto con le storie che aveva in testa, non ha mai smesso. Dedicando anni alla stessa opera, in attesa che la maturazione di movimenti, parole e sviluppi mettesse a tacere ciò che Yates voleva lasciare. Uncertain times, l’ultimo manoscritto a cui lavorò sei anni, resta incompleto e inedito fatta eccezione per un breve estratto pubblicato da una rivista newyorkese.
 
La scrittura di Yates non è di quelle che colpiscono dalle prime pagine. Penetra lentamente, ha bisogno di tempo e pazienza per assorbimenti e comprensioni. L’universo narrativo di Yates è popolato da molti personaggi, realtà di carne che si intrecciano, vite semplici che diventano complesse, dominate da irrealizzazioni, rinunce, accomodamenti infelici, dolori trattenuti e mai superati. È una sorta di low profile autoimposto, un’immensa bolla in cui ogni personaggio si muove, parla. Non mancano le aspettative, i sogni, le prospettive verso un futuro definibile ‘migliore’. Eppure di quel futuro nessuno dei personaggi di Yates riuscirà ad afferrare più di qualche briciola.
 
Di Revolutionary road si è dibattuto molto, recentemente, in seguito alla realizzazione cinematografica diretta da Sam Mendes ed interpretato da Kate Winslet e Leonardo DiCaprio. Nel film rivivono alcune delle scene più intense del primo romanzo di Yates, fotogrammi che raccontano di due esistenze in perenne bilico tra aspettative giovanili, una vita familiare piatta e i talenti perduti. Ma il cambiamento che poteva esserci, scegliendo un'altra città, un altro paese; il cambiamento che poteva restituire a Frank ed April quella vita tanto desiderata, forse meritata, non c’è mai stato. Distruggendo ogni residua speranza che la vita, la loro vita, potesse essere altro, che potesse esserci molto di più delle sbarre che li circondano tra ruoli e doveri.
 
Disturbo della quiete pubblica, invece, ai sogni vuole credere fino alla fine. Esattamente quello di fare cinema del protagonista, John Wilder, un uomo diviso tra la routine familiare, l’amante e l’idea di poter ancora credere a quel sogno mai sopito. Ma nessuna delle decisioni che prenderà lo avvicineranno alla meta, piuttosto lo spingeranno sempre più giù, tra alcolismo e disturbi mentali finendo per preferire un ambiente controllato, dove ogni momento è scandito da rigidità e silenzio. La vita, forse, è solo un gioco di illusioni, sembra dire l’ultima battuta del romanzo: “Uscire da qui?”
 
Anche a Cold Spring Harbor non se la passano meglio. La povertà, i figli che arrivano troppo presto interrompendo il passaggio tra adolescenza ed età adulta, l’impossibilità di risolvere l’eterno dilemma tra istruzione e lavoro, i legami complessi tra caratteri deboli e forti; tutto questo rende gli abitanti di Cold Spring Harbor dei piccoli soldatini inadatti alla guerra, bloccati ai bordi d’un mondo sconosciuto. Evan passerà attraverso due matrimoni, due figli, tre famiglie, il college e il lavoro prima di capire qual è il male minore perché in fondo “lo sai che cosa diventerai? Diventerai un uomo”.
 
Yates è in grado di mostrare una scena spennellandone i tratti in alcune pagine. Dietro gesti, immagini, parole, si nascondono personaggi e intrecci, legami e scavi che lo stesso Yates ha ammesso essere estremamente vicini al suo vissuto, in alcuni casi è proprio da ciò che conosceva direttamente che ha attinto per scrivere. L’invenzione è vera, o il vero si è fatta invenzione.
 
Per Janice Wilder le cose cominciarono ad andare storte nella tarda estate del 1960. E il peggio, come non fece che ripetere in seguito, il lato più orribile della faccenda è che tutto parve capitare senza il minimo segno premonitore.
Aveva trantaquattro anni e un figlio di dieci. Non la seccava il fatto che la sua gioventù stesse svanendo – non era stata comunque una gioventù avventurosa, né priva di preoccupazioni – e, se il matrimonio era stato per lei più un modo per sistemarsi che una storia d’amore, anche questo le stava bene così. Nessuno ha una vita perfetta. Le piaceva lo svolgersi ordinato delle sue giornate, le piacevano i libri, che possedeva in gran quantità, e le piaceva anche il suo appartamento alto e luminoso, con vista sui grattacieli di Manhatan. Non era certo lussuoso o elegante, ma era un appartamento comodo; e comodo era una delle parole preferite da Janice Wilder. Le piaceva anche la parola civile, e ragionevole e sistemazione e rapporto. Erano poche le cose che la sconvolgevano o la spaventavano; le uniche a riuscirci, al punto di farle gelare il sangue, erano le cose che non capiva.
(incipit di Disturbo alla quiete pubblica, Distrubing the Peace, 1975)
 
 
Nello scaffale:
Revolutionary Road di R.Yates, prefazione di Richard Ford, edizione Minimum Fax, 2009)
Disturbo della quiete pubblica di R.Yates, prefazione di A.M.Homes, edizione Minimum Fax, 2004)
Cold Spring Harbor di R.Yates, prefazione di Luca Rastello, edizione Minimum Fax, 2010)

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