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(In)ter(per)culturando: ’La notte dei petali bianchi’ di Gianfranco Di Fiore

“Vieni con me”, disse, mi prese per mano e mi portò nella stanza in fondo al corridoio. C’erano delle luci colorate che uscivano fuori dalla porta insieme ai soliti rumori elettronici; luci verdi e gialle, luci rosse e blu.
“Lascia stare Alice, ti prego”.
“Non è come credi”.
“Dammi un altro goccio almeno”, le dissi.
“Qui dentro c’è tutta la mia vita”, sussurrò aprendo di più la porta. La testa mi girava a causa dell’alcol ma i miei occhi riuscivano a vedere. Fu come entrare in un incubo. Il lettino era posizionato al centro della stanza, lungo i bordi correvano delle ringhiere in ferro che impedivano al corpo di cadere. Due enormi macchinari erano posizionati sul lato destro della camera; i rumori più forti venivano fuori da una specie di mantice che soffiava in una colonna di plastica trasparente.
“Che te ne pare?”, chiese Alice.
“È così assurdo! Non mi sembra vero”.
“Ci vuole tempo Dante, ci vuole tempo!”
La piantana della flebo era agghindata con luci natalizie e palline dai fili dorati. Sulla punta Alice aveva sistemato un cappello di Babbo Natale con una striscia di capelli d’angelo argentati che scendevano fino alle piastrelle. Al lato del letto – sopra il respiratore – c’erano i pastorelli in attesa della nascita di Gesù, un pozzo di pietra finta e più in alto, in una mangiatoia ricavata da un cartone di scarpe, il bue e l’asinello. Mancava la Madonna, nei pressi del giaciglio c’era solo San Giuseppe. Anche nella scatola di scarpe erano state messe delle luci colorate, alcune arrivavano fino alle sbarre del letto dove Alice le aveva bloccate con del nastro adesivo. Aspettava che io parlassi; se ne stava in silenzio con le lacrime agli occhi, beveva Four Roses e batteva i piedi senza alcun motivo. Dentro di me si addensavano sensazioni contrastanti. Non ero in grado di capire, forse non avevo sofferto abbastanza per avvicinarmi a quel mondo fatto di malattia e di speranza vana, di fede e di bestemmie taciute. Ero certo di non aver vissuto così intensamente da poter accettare una tale disperazione. Sembrava che Alice avesse costruito dentro di sé un altro sistema di esistenze, un’altra vita che si allargava nella mente quando rientrava a casa dopo il lavoro. C’era qualcosa di
prodigioso nei suoi occhi, magari potevo mettere lei al posto della Madonna. Chissà che non avrebbe potuto fare dei miracoli con un altro po’ di whisky.
“Buffo no?”
“Non lo so Alice, non pensavo che esistessero cose così”.
“Così come?”
“Così disperate. Pensi che ci stia sentendo?”
“Sono rari i momenti in cui riesce a essere lucido. Di solito si lamenta per via del dolore, apre un solo occhio e muove appena le mani. È pieno di morfina fin dentro le caviglie. Vieni, ti mostro una cosa”, disse avvicinandosi al letto. La nausea aumentava e sentivo le gambe cedere da un momento all’altro. Mi fermai a guardare fuori dalla finestra che affacciava sulla strada: c’erano famiglie che sbucavano dalle auto con buste e cesti pieni di regali, sui balconi le luci intermittenti brillavano davanti alle persiane chiuse. Oltre i tetti, verso il raccordo autostradale, le ciminiere delle fabbriche spurgavano fumo che il cielo invernale colorava di un blu elettrico.
“Girati Dante, voglio sapere cosa ne pensi”, mi disse alzando le coperte.
Le luci colorate ora ardevano su di un corpo glabro e sottile, scheletrico e pieno di bruciature. Il marito di Alice sembrava un enorme verme, le sue vene erano di un viola scuro e non aveva peli; il suo sesso fra le gambe si era ritirato in una piccola bolla di carne. Sembrava una creatura degli abissi, un pesce immerso in un acquario luccicante, una forma di vita primitiva ancora non perfettamente sviluppata. Il cranio era la parte più deforme di quello strano corpo. Le ossa degli zigomi erano appuntite e le clavicole spingevano verso l’alto come guglie nane. Non aveva
più unghie ed era liscio come un delfino, Alice lo guardava senza dire una parola. La testa mi girava, bevevo per non pensare e più mi avvicinavo alla verità più avevo paura. Mi sentivo quasi graziato, un uomo contento, forse ero persino in debito con Alice.
“Siamo due ubriaconi maledetti”, sussurrò ruttando.
“Non dire così, ti prego”.
“Stai zitto Dante. Facciamolo un’unica volta”.
Alice sollevò la gonna e si chinò verso il letto poggiando le mani sulle gambe magre del marito. Era nuda, aveva dei graffi intorno all’inguine e un paio di macchie scure sulla schiena. Raccolse da sotto al letto un enorme vibratore di gomma e mi chiese di penetrarla. Allargò disperata le sue natiche e con gli occhi chiusi urlò rabbiosa fino a quando non decisi di fermarmi.
“Ne voglio ancora!”
“Non posso Alice. Mi sento male, ti prego andiamo via!”
“Non mi lasciare così Dante. Almeno beviamo un altro goccio”.
(pag.135-137, per gentile concessione dell’editore).
 
 
Inizio con questo stralcio perché ‘La notte dei petali bianchi’ di Gianfranco Di Fiore (in uscita domani, 21 ottobre – Laurana collana rimmel, pag. 248 a euro 16,50) è un romanzo che va saggiato in silenzio per alcuni minuti.
In realtà si tratta di un libro che richiede molte pause, in lettura.
Una storia d’una nuda crudità imbarazzante, dai risvolti devastanti nell’irrazionalità delle cose che nascono nel dolore, nella fatica e che nella ricerca della vicinanza e dell’amore falliscono.
 
Di Fiore impasta una trama tutto sommato semplice, che si muove in continuazione tra realtà destabilizzanti, dove non esiste alcuna ‘normalità’ né di morali né di etiche perché tutto poggia su violenze (subite e procurate), stupri fisici e dell’anima, dolori profondi che non si riescono quasi a nominare. Ci sono raggi di sole anche se più spesso è notte e i personaggi si muovono come entro i confini labili di un palco pieno di spine, ogni passo è faticoso, ogni scelta è dolorosa, ogni cambio d’inquadratura riempie la gola di acido, preme sul petto.
 
Indubbiamente non è originale l'intreccio iniziale a proporre un legame tormentato tra una mussulmana e un italiano, anzi, probabilmente inizia già - nella narrativa italiana degli ultimi anni - a diventare abusato come plot sebbene in questo romanzo sono tutti gli altri elementi che ne arricchiscono, complicano e graffiano la trama.
 
Narrato in prima persona, attraverso il corpo e il cuore di Dante, un quasi cinquantenne a cui piacciono solo le ragazzine, e infatti s’innamora di Samira, una mussulmana di quindici anni schiava d’un padre che la minaccia di morte se la vede con un infedele. Ma Dante è anche un bambino abusato, violato da un padre avvezzo all’alcool e ai piaceri presi con la forza, un bambino rimasto nel corpo d’un uomo che convive giorno dopo giorno con una madre persa in un mondo parallelo, tra cosmetici e computer, una madre che va con gli uomini all’occasione, che va a trovare il Vecchio per natale, quel padre ormai benedetto dalla lucida inconsapevolezza che il tempo scorre. Samira invece esegue ordini, ha un corpo che comanda con interruttori rotti, mutilata nei genitali non prova piacere ma cerca la vicinanza, i sogni esistono di notte, quando Dante la va a prendere e vanno nel camper circondato dalle nebbie del cimitero. Dante, che fa la guardia giurata, ha deciso che la ama, che la vuole sposare.
Ma il matrimonio non ci sarà.
 
Accadranno altre cose, in una contorsione a tratti allucinata ma anche dolorosissima dove non c’è spazio per la speranza, dalla prima pagina se ne percepisce l’assenza (al punto che perfino le iniziali promesse di matrimonio suonano stonate, inconsistenti).
 
Ho scelto di proporre uno stralcio centrale, di questa storia, perché il gusto che sin dall’inizio arriva merita almeno di stringerne le pagine tra le mani. L’inizio è potente, prende il lettore e lo immerge in acqua densa, scurissima e senza possibilità di fraintendere alcunché: tutto è visibile, gesti, oggetti, corpi e contesti. Dall'assaggio sopra proposto, inoltre, è possibile cogliere alcune delle caratteristiche della scrittura dell'autore (atmosfera, dialoghi innestati, parti descrittive dominate dal narratore, visività e intensità).
 
Certo, è una lunga storia di amori, questo libro. Ma nella misura in cui l’amore non salva, non protegge, non cura. Addirittura si leggerà a un certo punto che probabilmente dall’amore ci si deve curare. Questo è l’approccio di Di Fiore. Nessun personaggio ha effettive chance di salvezza né di speranza come già anticipato. Ed è forse questo estremo, profondo e insopportabile colpo che dalle pagine emerge: è forse questo l’aspetto che più turba.
 
Ci ho sentito, leggendo, un certo 'rumore di fondo': l’autore è del’78 che non è una mera annotazione biografica, secondo me porta con sé alcune connessioni più generali, ancora da mettere a fuoco del tutto (non necessariamente legate alle questioni ormai abusate sulle generazioni, almeno non rispetto esclusivamente a quelle più recenti che contrappongono 'fazioni'). In ogni caso, se un trentatrenne racconta di vite senza speranza che si trascinano ogni minuto (ma proprio ogni minuto) pesi gravosissimi in parte acquisiti vivendo come per Alice o per la madre di Dante ma anche, nel caso dei due 'innamorati' iniziali, da 'dietro' ovvero dalle radici; se narra di crudeltà affrontate come fossero tutto sommato talmente comuni che 'lamentarsene' o tentare di allontanarsene è inutile oltre che impossibile: qualche riflessione in più andrà fatta.
 
Di Fiore narra con una certa compattezza d’insieme, un linguaggio visivo, sensoriale, descrittivo con qualche zampata in eccesso. I movimenti nella parte centrale della storia tendono a rallentare, probabilmente non aiutati dall’impressione che resta appiccicata addosso da subito ovvero l’impossibilità che ci sia alcunché per qualcuno. E infatti le decisioni che scatenano cambiamenti sono centellinate, frutto d’un percorso di caduta, ammissione di debolezze, ossessioni e demoni ma sono anche l’esatto scarto tra l’essere coi buchi e le ferite, e lo stare sui buchi e le ferite.
 
Altro personaggio centrale, in questa narrazione (presente nello stralcio iniziale qui riproposto) è Alice, l’amica-compagna di ferite che Dante conosce in una clinica per il recupero.
 
Alice porta nella trama il fattore ‘malattia’ (non sua, ma del marito, con ogni possibile diramazione rispetto all’amore provato, ai sentimenti che mutano nonché all’oppressione d’una cura che non può guarire ma solo assistere alla lenta deformazione del corpo malato). Ma Alice è anche l’ennesimo elemento imprevedibile, donna spezzata da un vivere insopportabile che si regge su espedienti fortuiti, fugaci balsami che durano troppo poco per interrompere l’infezione sulle ferite della sua anima. Dante e Anna si somigliano ma non possono stare insieme, i loro cuori e i loro corpi cercano cose differenti.
 
Di Fiore alterna i piani temporali, il narratore resta saldo al timone di immagini, inquadrature e voci, ma il tempo incrocia presente in divenire con diversi passati a recuperare frammenti del protagonista quanto di contesti spennellati con maniacale precisione. Impossibile non focalizzare questi mondi, impossibile non avvertirne la puzza, l’oscurità e i sussurri dei demoni che entrano ed escono dai personaggi.
 
Forse nel finale, proprio nell’ultima pagina si potrebbero rintracciare spiragli di speranza. Scrivo ‘forse’ perché personalmente non sono riuscita ad acciuffarli: ci sono “questi fogli di carta” che contengono il destino del narratore-protagonista, o uno degli ipotetici destini. C’è un’attesa consumata “sul divano di pelle marrone, in un angolo del corridoio che affaccia sulla campagna desolata”.
Esattamente: “desolata” dice tutto, secondo me.
 
Un libro che incrina le bontà, i luccichii, le famiglie Mulino Bianco e Calzedonia. Il sole scalda meno anche quando scotta. L’amore, ovunque sia, urla per tutto il tempo. Urla di dolore anche nei gesti più affettuosi. E ogni azioni, tra angolazioni e punti di vista, è destinata a cadere. Non c'è altro (un orizzonte, uno scarto, una luce che possa anche solo apparire meno dolorosa, una possibilità, qualcosa che non sia fatica, dolore, sofferenza e cicatrici in perenne vomito di sé) in questo mondo che Di Fiore ha cullato dentro di sé (o non avrebbe potuto scriverne con tanta vivida intensità, a mio parare).
 
 
 
[Ringrazio Gabriele Dadati.]
 
 
 
Link
Scheda del libro.

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