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Il voto in Molise

Una riflessione che può essere estesa all’intero Paese a partire dal fatto che la metà degli aventi diritto al voto non si è recata alle urne.

di Alessandro Imbriglia

In Molise, l’esito del rinnovo del consiglio regionale e del suo presidente avrebbe necessitato di uno specifico focus sulla relazione che intercorre fra corpo sociale e corpo politico, fra rappresentanti rappresentati, fra proposta politica e audience elettorale. Si parta dal dato più evidente e ovvio: la metà degli aventi diritto al voto – il 52,05% per l’esattezza – non si è recata alle urne. Questo dato andrebbe confrontato, almeno in termini generali, con l’andamento del voto e dell’astensione dal voto nelle regioni e nei comuni che nei mesi precedenti hanno rinnovato i rispettivi consigli e con la più generale affluenza alle urne delle scorse politiche.

In questa sede, mi limiterò a evidenziare la percentuale di affluenza alle urne registrata in Molise, a partire dal 1970, anno in cui si svolsero le prime votazioni per le elezioni del Consiglio regionale. Nel 1970 votarono l’ 80,07% degli aventi diritto; nel 1975 l’ 84,32%; nel 1980 il 75,38%, nel 1985 il 76,94 %; nel 1990 (ultima elezione con il sistema proporzionale) il 76,74%. Nel 1995 – anno in cui fu attuato un sistema misto proporzionale/maggioritario, con indicazione del presidente – si recarono alle urne il 72,20% degli aventi diritto. Nel 2000, con la prima elezione diretta del presidente, fu registrato il 67,34%; nel 2001 il 65,21%; nel 2006 il 65,10 %; nel 2011 il 59,79%; nel 2013 il 61,63%; nel 2018 il 52,2% e solo il 47,95% il 25 e il 26 giugno 2023.

A seguito delle ultime due tornate elettorali, appare evidente, in seno alla società molisana, la netta contrapposizione fra un corpo elettoralmente vivo e un corpo elettoralmente morto. La presenza di questi termini oppositivi dovrebbe sollecitare un genere di riflessione che abbia la lungimiranza di protrarsi oltre la superficiale accettazione del dato statistico e si assuma la responsabilità di fornire risposta al seguente punto interrogativo: esiste un significativo grado di rappresentatività fra le compagini politiche esistenti e le collettività chiamate al voto?

Il lieve calo dell’affluenza alle urne (47,95%) consolida il dato registrato nel 2018, quando l’affluenza raggiunse il 52,16%. I due dati, posti su un arco di tempo significativo, rilevano una possibile condizione strutturale dell’assetto istituzionale molisano e delle relative offerte politiche: oltre la metà degli aventi diritto al voto rigetta qualsivoglia ipotesi di adesione partitica e con essa manifesta la totale inadeguatezza del voto come forma di partecipazione alla vita politica.

A partire da tale constatazione, pare necessario integrare al primo quesito un ulteriore punto interrogativo: è possibile individuare una soglia al di sotto della quale la partecipazione politica e la conseguente adesione partitica attestino, de facto, l’illegittimità di un complessivo assetto istituzionale e dell’offerta politica che quest’ultimo contiene?

Visti i numeri impietosi, pare quantomeno ragionevole avanzare la seguente interpretazione: il grado di rappresentatività dell’offerta politica molisana – ciò vale sia per i vincitori sia per i vinti – registra percentuali talmente basse da delegittimarne ogni pretesa di governo e di opposizione. Ai circa novantaquattromila voti dalla coalizione vincitrice si sommano i circa cinquantacinquemila voti della coalizione perdente, ma la reale maggioranza è costituita da coloro che non hanno espresso il proprio voto, pari a 170.624 molisani su 327.805 aventi diritto. La frattura che si evidenzia in seno alla “società civile” molisana non è interna al campo politicoma è esterna ad esso. La lacerazione si consuma e si amplia fra chi è convinto di poter tutelare i propri diritti, o salvaguardare i propri interessi, adeguandosi alla prassi istituzionale e politica che, de iure, è codificata, dunque costituzionalmente ammessa, e chi, al contrario, con il proprio diniego ne denuncia, de facto, l’inservibilità, l’anacronismo e la sterilità.

Tale frattura non si stabilisce all’interno dell’agone politico, bensì fra il campo politico e tutto ciò che, paradossalmente, si tiene al di fuori del suo perimetro: la comunità. L’antinomia, anziché prodursi fra le differenti compagini politiche, si impone fra lo spettro complessivo dell’offerta politica, da un lato, e uno strato sociale maggioritario dall’altro. Che una “maggioranza comunitaria” costituita da 170.536 astenuti sancisca la propria espulsione dal sistema politico-elettorale rivela, per converso, una “minoranza comunitaria” rappresentata da 157.581votanti con un ruolo attivo nella performance elettorale. A partire da questo punto, definiremo la maggioranza come maggioranza passiva e la minoranza come minoranza attiva.

La minoranza attiva, o comunque una parte estremamente consistente del proprio corpo elettorale, aderisce alla pratica del voto e promuove i propri referenti politici a partire dai seguenti “criteri”:

1. Dipendenza economica e occupazionale: l’elettore subisce, in maniera più o meno esplicita, la pressione ricattatoria del proprio datore di lavoro o del datore di lavoro da cui, indirettamente, potrà dipendere la propria effettiva sussistenza (datore di lavoro del proprio partner, di un familiare, di un parente etc.)

2. Atteggiamento familistico: persiste una consolidata disposizione “etica” a partire dalla quale l’elettore è chiamato ad assecondare e legittimare le pretese di un consanguineo candidato o di un consanguineo che, indirettamente, assolve alla funzione di collettore di voti per altrui candidati. È una forma di sudditanza “tiepida” ma persistente, che non si esprime nei confronti di un padrone, bensì in relazione a un vincolo parentale che è, tutt’ora, uno dei criteri più stringenti, e dunque efficienti, nel reperimento dei voti nelle zone rurali. Sono queste le aree ove, per giunta, la media dell’età piuttosto elevata e la massiccia migrazione dei giovani molisani determinano la carenza di forze oppositive e innovative. Negli ultimi anni, questo tratto sub-culturale ha subìto una paradossale recrudescenza: i professionisti del “metodo molisano”, sia da destra che da sinistra (molto meglio da destra), hanno tradotto e codificato questo specifico “vincolo etico” in esercizio di potere, in tattica sofisticata, quasi infallibile, che celebra la sua più fulgida espressione nella lista elettorale perfetta.

L’incidenza dei due fattori suindicati – sottomissione lavorativa ed economica e pressione familistica – si concretizza nella convergenza dell’uno nell’altro. Per tal motivo, in quest’area di reciproco sconfinamento, diviene estremamente arduo il tentativo di distinguerne i confini. I fautori di questo metodo, coloro che salvaguardano questa speciale promiscuità, ne affinano di volta in volta la prassi, impreziosendola di ulteriori accorgimenti, sino a tradurla in un’effettiva pratica di sottomissione. La loro principale arguzia risiede forse nell’abilità di tradurre il vincolo sub-culturale in vettore politico-elettorale (punto 2). Tale esercizio, che con il passare degli anni rassomiglia sempre più a una feroce disciplina, raggiunge la massima performatività con l’autoesclusione dalla scena partitica ed elettorale della metà degli aventi diritto al voto. La metà del corpo sociale si dissocia, anzitutto, dalle regole e dai criteri liberali e democratici, da ciò che formalmente, sul piano tecnico (come eleggere i propri rappresentati) corrisponde all’esercizio del voto. In tal modo, la metà del corpo sociale non corrisponde più a un corpo politico. Questa estraneazione – lo stabilirsi di una maggioranza passiva – fornisce certamente alla minoranza attiva la possibilità di estendere e consolidare un rapporto di forza che sia tutto a proprio vantaggio.

Posti i termini della questione, per coloro che, legittimamente, reputano necessario frenare e invertire il rafforzamento di una minoranza attiva e il consolidamento di una maggioranza passiva le ipotesi da valutare sono fondamentalmente tre:

1. È possibile, dunque auspicabile, riannettere la maggioranza passiva negli schemi tradizionali della partecipazione politica e dunque nell’assetto politico-istituzionale vigente. Nel caso in cui alcuni soggetti, individuali o collettivi, decidessero di perseguire tale ipotesi occorrerebbe fornire risposta ai seguenti interrogativi: come si raggiunge tale scopo? Attraverso quale metodologia? Quale elemento potrebbe rappresentare, agli occhi della maggioranza passiva, una fonte di motivazione tanto valida da ristabilirne una partecipazione attiva?

Come un corpo sociale vivo, ma elettoralmente morto, potrà essere riassorbito nell’esercizio convenzionale della politica così come la conosciamo? Esiste la possibilità di ravvivare, in termini politici, partitici ed elettorali, questo corpo?

2. È possibile, al contrario, che la maggioranza passiva non possa più essere riannessa nell’assetto politico-istituzionale vigente. È possibile cioè che la sua propria forza, la sua vitalità, non la si possa più convogliare nella macchina politica e partecipativa cosiddetta democratica. Un corpo sociale vivo, ma elettoralmente morto, potrebbe ammettere, in via esclusiva, forme di partecipazione e deliberazione politica inedite, tutte da scoprire, da teorizzare e pianificare. Occorrerà, in tal senso, fornire riposta ai seguenti quesiti: la dipartita politica ed elettorale della metà del corpo sociale è reversibile o irreversibile? Nel caso in cui si confermasse o considerasse irreversibile, sarebbe opportuno immaginare criteri e forme di partecipazione alla vita comunitaria del tutto differenti da quelli ai quali siamo educati e istruiti?

3. La terza ipotesi costituirebbe, in via del tutto ipotetica, un elemento complementare o un prolungamento della seconda ipotesi. La maggioranza passiva, congiuntamente alla fazione uscita sconfitta dalle elezioni politiche, potrebbe formulare la seguente valutazione: il sistema politico-istituzionale vigente si conferma esaurito: il suo grado di rappresentatività non raggiunge una soglia minima – in termini di adesione politica e partitica – che possa attestarne la legittimità. Per tal motivo, anziché tentare di riassorbire lo strappo (la crisi) determinato dall’autoesclusione della maggioranza passiva, con il tentativo di riannettere un corpo elettoralmente morto nell’assetto politico e istituzionale contemplato, la maggioranza passiva proverà a squarciare, ulteriormente, tale ferita, conducendo la soglia dell’astensione a livelli non sostenibili, a percentuali entro le quali la minoranza attiva si tradurrebbe in un numero così esiguo di componenti da essere costretta a scegliere fra due alternative ugualmente fatali: ammettere la totale illegittimità del proprio potere, offrendo un significativo contributo a un cambio di paradigma istituzionale, politico e partecipativo, o, nel verso opposto, imprimere una svolta autoritaria epocale, al fine di sedare qualsivoglia tentativo conflittuale condotto dalla maggioranza passiva.

In definitiva, anziché scegliere di riassorbire la crisi del sistema, la maggioranza passiva potrebbe ambire a condurre il sistema stesso verso la propria catastrofe, assecondando, per giunta, la sua attuale tendenza.

Nella condizione odierna, il fatto che la maggioranza del corpo sociale scelga di non esercitare alcun margine d’incidenza sulle strategie e sulle pratiche di amministrazione di cui subirà, evidentemente, l’iniziativa governativa costituisce la condizione ottimale dalla quale la minoranza attiva – con esattezza la compagine che, al proprio interno, sarà chiamata ad amministrare (i vincitori delle elezioni) – condannerà la maggioranza passiva a un progressivo e inarrestabile deterioramento delle proprie condizioni di vita. All’interno di questo scenario, le risorse (sanità, welfare, cultura) e le opportunità (investimenti, occupazione etc.), in quanto risorse finite, saranno destinate, più che proporzionalmente, a coloro che, in diversa misura, abbiano alimentato la minoranza attiva, e, più precisamente, alla componente della minoranza attiva uscita vincitrice dalle elezioni: la distribuzione ineguale delle risorse sarà giocata sempre più entro la distinzione e la collocazione tra maggioranza passiva e minoranza attiva. Come se non bastasse – l’ulteriore delucidazione è tanto ovvia quanta rilevante – all’interno della stessa minoranza attiva ci sarà un perdente (il soggetto politico sconfitto alle elezioni), il quale, sul piano fattuale, condividerà la stessa sorte della maggioranza passiva: subire e accettare un incontrovertibile peggioramento delle proprie condizioni di vita o, in alternativa, abbandonare le proprie terre. Per tal motivo, appare ancor più urgente, almeno agli occhi di chi scrive, assumere come ineludibile oggetto di riflessione i punti interrogativi avanzati nelle tre precedenti ipotesi; punti interrogativi da concepire come ugualmente validi su scala nazionale, regionale e locale.

In conclusione, gli astenuti dal voto, congiuntamente a coloro che sono stati sconfitti nel confronto elettorale, sono chiamati a riflettere sul seguente punto: la stabilizzazione di una maggioranza passiva è il punto nevralgico di una più ampia strategia di governo. Attraverso il congelamento di quelle risorse scarsamente compatibili, o del tutto inconciliabili, con gli interessi e gli scopi di una specifica formazione economica e sociale, la fazione vincitrice (all’interno della minoranza attiva) deciderà sulle sorti della maggioranza passiva e sulle sorti della fazione sconfitta all’interno della minoranza attiva. A governare un’intera collettività saranno dunque i rappresentanti di una minoranza, eletti all’interno di una precedente minoranza. La sovra-rappresentatività della minoranza di una minoranza e l’effettiva capacità d’incidenza che essa possiede rispetto a una maggioranza che, nel suo complesso, non è mai stata tanto sottorappresentata non decretano la fine sostanziale della democrazia? Non siamo forse dinanzi all’instaurazione di un modello, del tutto inedito, di oligarchia?

Nota 1:

È necessario notare che fra i 157.181 votanti sono 3.166 le schede non valide, 1.728 le schede bianche e 18 le schede contestate e non attribuite.

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