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 Home page > Tribuna Libera > Il super Santos era bucato o sgonfio, ma a noi bastava

Il super Santos era bucato o sgonfio, ma a noi bastava

Il calcio era il nostro gioco. Quello parlato e radiotrasmesso da ‘Tutto il calcio minuto per minuto’ era fantasia. Era, cioè, quello che avremmo tentato di ripetere nei campetti di periferia con la vana illusione di esserne un giorno protagonisti

Tutto avveniva con semplicità. La strada o il cortile erano il campo da gioco, due sassi i pali delle porte, un super Santos sgonfio o bucato era il pallone. Una volta uno di noi ne comprò uno di quelli buoni, costosi, almeno così ci sembrò. Quel pallone durò ventiquattro ore. Durante l’unica partita che disputammo in piazza Marina, allora era ancora in terra battuta, finì nel cortile di una signora che lo sequestrò e lo bucò. Per il nostro amico fu un piccolo dramma, fu la prima e l’ultima volta che i suoi familiari gli acquistarono un pallone. Lo sostituimmo con un super Santos bucato o comunque sgonfio. Proprio per questo raramente raggiungeva il cortile di quella signora. In ogni caso sarebbe stato facile trovarne un altro, sempre sgonfio ovviamente. Non potevamo permetterci altro. Le priorità per le famiglie allora erano altre. Non eravamo bambini impertinenti o maleducati, e, raramente, il pallone giungeva nei pressi di quell’abitazione. Quello ci arrivò perché era nuovo e gonfio. Quando giocavamo nella spiazzo vicino alle case c'era una signora che andava ad aprire l'uscio della sua abitazione con l'intento preciso di sequestrarci il pallone se questo fosse entrato dentro il suo appartamento. Non succedeva quasi mai, ma lo scopo era evidente: non voleva che giocassimo su quella parte della piazza. Non ho mai capito il perché di quel comportamento e di quel rancore. In noi non c’era cattiveria, in fondo non facevamo nulla di male, giocavamo con quel poco che avevamo. La nostra gioia era correre dietro ad un pallone di plastica, nient’altro.

Ci bastava poco per riempiere di allegria i nostri pomeriggi, sempre gli stessi, ma erano spensieratezza e felicità. Si erano felicità.

Per un breve periodo giocammo in un campo in erba, si fa per dire. Era fuori dal paese. Era un rettangolo grande, almeno così ci sembrò a quell’età, aveva qualche buca, ma ci bastò alzare i pali delle porte o mettere due pietre per dargli un aspetto verosimile a quelli della Serie A. Era piacevole fare persino il portiere. Facevamo i tuffi e divenne interessante fare un ruolo che nessuno voleva ricoprire. Di solito in porta ci andavano i ‘più scarsi’ o si giocava senza portiere. Quella piacevole sensazione di giocare su un campo in erba durò poco, il proprietario del terreno lo fece arare e lo adibì a pascolo.

I pensieri sono impressi in qualche angolo della nostra memoria. Quelli che ritornano con continuazione sono scoloriti, ma poi se ne aggiungono altri, ed altri ancora, ma sono anch’essi in bianco e nero.

I giocatori eravamo solo tre, ma non rinunciammo a fare una partita. Giocai contro due avversari. Ebbene per me fu agevole vincere, perché uno dei due rivali era così ‘scarso’ che era semplice rubargli la palla quando il suo compagno per altruismo gliela passava. Andare a segnare nella porta vuota era facile. Non ero io che ero bravo, ma era uno dei miei due avversari ad essere ‘titubante’ con il pallone tra i piedi. Io ne approfittai soltanto.

Un altro pensiero torna sempre … non riesco a fermarlo ….

Chissà quanti vasi ho rotto e quanta pazienza hanno avuto i vicini di casa. Avevo l’abitudine di giocare da solo. Andavo avanti e indietro calciando il super Santos sul muro o sui gradini delle case di piazza Marina che sono attaccate le une con le altre. L’abilità consisteva nel tirare calci di prima con entrambi i piedi senza far cadere la palla giù dal marciapiede, ovviamente c’erano gli ingressi delle case e i vasi terracotta come ostacoli da evitare, dovevo stare attento, ma credo che ci volle molta pazienza per chi ci abitava. Li ho imparato a giocare, li è nata probabilmente la passione per il calcio, mantenuta per sempre, anche ora che non ci potrà più essere nessun paragone o critica, non più almeno come avveniva allora. 

Nei piccoli paesi non puoi sceglierti i compagni di gioco, quelli sono, non possono essere altri, sono loro che segnano gli anni dell’adolescenza, quelli della gioia e della spensieratezza, dei ricordi inconsapevoli.

Ci ritrovavamo quasi sempre nel primo pomeriggio. Il pallone non mancava mai. A volte ci inventavamo i giochi. Uno di questi era a chi faceva più palleggi. Di solito a vincere erano quelli che consideravamo più scarsi. Uno di noi fece mille palleggi senza far cadere il pallone per terra. Ancora oggi facciamo fatica a crederci, ma avvenne veramente. Quel nostro amico era imbattibile, ma a calcio era una ‘schiappa’.

Quando eravamo in tanti facevamo le partite. Tutti partecipavano, torremuzzari e ‘nzusari di ogni età, anche chi non aveva nessuna voglia di giocare, ma per non essere escluso dal gruppo si cimentava lo stesso o finiva in porta. Le squadre erano sempre diverse, ma cercavamo di farle bilanciate. Due di noi sceglievano i compagni, uno per volta, l’equilibrio era facile da realizzare.

Spesso giocavamo nello spiazzale della scuola elementare. Pochi metri, con restringimenti dei muri ed una specie di discesa. Capitava che erano di più i giocatori che i metri quadrati del ‘campo’, se così possiamo chiamarlo. Erano partitelle combattute come se fossimo stati dei veri professionisti. Le regole erano quelle del buon senso, ma spesso non contavano. Non erano partite a tempo, ma a chi faceva più gol o a chi arrivava per primo a dieci. Spesso finivamo di giocare con il buio, con la tenue luce che veniva dalla strada adiacente. Una volta eravamo in tanti in pochi metri quadrati. Le mischie erano inevitabili. I difensori tentavano di impedire che la palla toccasse il muro che faceva da porta e gli attaccanti con spinte e calci tentavano invece di fare gol. Le loro grida stavano ad indicare che ci erano riusciti, ma i difendenti di solito non erano d’accordo, reclamavano una spinta di troppo o che la palla fosse uscita fuori dalla porta. Tutto era aleatorio anche i pali, quindi spesso non c’era certezza sull’esito dei tiri e dei gol.

Un’altra volta giocammo sotto la pioggia battente. Il pallone non ribalzava nelle pozzanghere anche se il campetto era in mattonelle. Ci sembrò di essere dei veri calciatori che, si sa, giocano con qualunque condizione atmosferica. Il cortile Marina era stato pavimentato da poco. Non c’erano macchine. Sembrava un campo di calcetto. Sembrava un palazzetto dello sport. Lì sfidammo i ragazzi della colonia di Reitano che ogni estate venivano in gita nella piccola borgata. Li battemmo tra gli applausi di chi ci stava guardando, sembrava di essere in uno stadio vero o almeno così mi piace ricordarlo. Per noi giocare a calcio era naturale. Vincevamo quasi sempre. L’intesa era istintiva. Probabilmente perché conoscevamo ogni metro quadrato di quelle piazze o forse perché eravamo veramente bravi.

E, comunque, non importava il risultato finale, ormai avevamo dato sfogo alle nostre fantasie. Il calcio era ed è il nostro gioco, quello dell’adolescenza, quello che segna i pensieri e la vita di chi nell’infanzia ha potuto disporre solo di un super Santos bucato.

REDNEWS

Foto di Pulvino Giovanni

Questo articolo è stato pubblicato qui

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