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Il secolo del deficit americano

Tra iniziative populiste di Trump e manifesti fiscali palesemente irrealizzabili di Biden, i tempi dell'equilibrio di bilancio negli Stati Uniti sembrano tramontati.

Il percorso verso le primarie per designare il candidato Repubblicano alle presidenziali del prossimo novembre è ormai ben delineato. Da un lato c’è il favorito naturale, Donald Trump, che offre il petto alla gragnuola di incriminazioni che lo stanno colpendo, in attesa di capire come finirà ma immaginando di tornare alla Casa Bianca su un carro di fuoco.

Dall’altro lato, ci sono candidati che oggi appaiono dei nani ma su cui si appuntano gli occhi del grande capitalesoprattutto finanziario, per capire se esiste una qualche probabilità di prenderne uno e farlo ascendere al ruolo di front runner e salvatore non è chiaro di quale patria. Forse perché è chiaro che da una seconda presidenza Trump il grande capitale rischierebbe molto, in termini di instabilità che potrebbe sfociare in crisi costituzionale.

LA CRISI DELLA SOCIAL SECURITY

Trump ha quindi buon gioco a irrobustire la sua immagine di nemico delle élite globaliste e protettore dell’America bianca e oppressa dal mondo. Per fare ciò, Trump non disdegna di ergersi a protettore delle istituzioni di welfare, la Social Security su tutte. Cioè l’istituzione che paga benefici a pensionati, disabili e superstiti, iscrive i cittadini ai benefici del Medicare e che rappresenta la maggiore fonte di reddito per gli over 65 statunitensi.

Nel 2023, 66,8 milioni di cittadini percepivano benefici legati alla Social Security, per un importo che l’anno precedente è risultato pari a 1.230 miliardi di dollari. Il sistema è finanziato in via diretta mediante prelievo dei contributi sociali da datori di lavoro e lavoratori, per il 6,2% ognuno, e da lavoratori autonomi con aliquota al 12,4%. I contributi finiscono in un Trust fund. Parte del finanziamento di sistema deriva anche dalla tassazione dei benefici erogati dalla Social Security.

Ebbene, gli studi attuariali prevedono che il Trust Fund si esaurirà nel 2034. A quella data, in assenza di correttivi attuariali, la copertura dei benefici scenderà a circa il 77% degli importi attuali, in virtù del solo prelievo dei contributi sociali, cioè della componente di pura ripartizione del sistema. Alcune simulazioni, condotte su un arco temporale standard di 75 anni, indicano che servirebbe un aumento dei contributi del 3,61% delle buste paga per tenere il sistema in equilibrio attuariale sui livelli attuali. I contributi di Social Security oggi sono pari al 5,2% del Pil statunitense.

È quindi partito il dibattito su che fare per evitare l’esaurimento del fondo fiduciario. Le ricette classiche, di ovvia natura attuariale, suggeriscono di aumentare l’età pensionabile e di accesso ai benefici. Non si inventa nulla, dopo tutto. Ma è qui che si innesta la divaricazione tra i candidati minori Repubblicani e Trump. Il quale è già partito con un bel “giù le mani dalle pensioni degli americani”. E dall’età pensionabile, si intende.

TRIVELLE PER PENSIONI

Sì, ma come finanziare lo status quo? Sempre Trump, per non smentirsi, ha un’ideona: sbloccare le licenze di perforazione di gas e petrolio in remote aree dell’Alaska, che l’Amministrazione Biden ha congelato. Il problema resta l’aritmetica. Secondo il Congressional Budget Office, sbloccare queste licenze produrrebbe entrate per lo stato federale pari a 1,8 miliardi di dollari in un decennio, a fronte di esborsi per prestazioni di Social Security pari a 1.400 miliardi di dollari solo quest’anno.

Quindi, i conti non tornano. Ma far tornare i conti non ha alcuna rilevanza per l’elettorato, non solo statunitense. Trump ha ormai completato la mutazione genetica del partito repubblicano, disinteressandosi di temi classici come la quadrature dei conti e del bilancio. Dalla parte opposta, abbiamo un’amministrazione democratica che ha finanziato a deficit un gigantesco impianto di sussidi ambientali e tecnologici e che punta ad aumentare le entrate mediante una futuribile Billionaire Minimum Income Tax a carico dei più abbienti.

In pratica, un’aliquota del 25% sugli incrementi di ricchezza per chi ha attivi netti superiori a 100 milioni di dollari. Inclusi soprattutto incrementi di ricchezza maturati ma non realizzati, antico punto di contenzioso, non solo negli Stati Uniti. Biden afferma che questa misura frutterebbe 400 miliardi di dollari in un decennio. Secondo l’Amministrazione sarebbe solo l’anticipazione delle imposte sui capital gain realizzati, e servirebbe a evitare le pratiche elusive dei miliardari, che di norma estraggono potere d’acquisto indebitandosi sul patrimonio e ottenendo una forte riduzione della pressione fiscale grazie alla deducibilità degli interessi passivi.

Al di là delle difficoltà pratiche, ad esempio sulle risorse necessarie all’accertamento sugli attivi non quotati (con un fisco americano che negli anni è stato demolito dalla politica della lesina e oggi fatica ad accertare i grandi evasori), oppure che fare con le riduzioni di valore del patrimonio, che necessiterebbero di una restituzione al contribuente, è chiaro che la proposta di Biden appare più una testimonianza ideologica che una misura concreta per chiudere il deficit.

IL DEFICIT REGNA

Quindi si torna al via: oggi, negli Stati Uniti, non ci sono le condizioni per chiudere l’enorme deficit. Né da destra, né da sinistra. Il che depone sfavorevolmente per la futura posizione fiscale del paese più potente al mondo.

Ma Trump fa Trump: da una sua seconda presidenza potremmo attenderci nuovo deficit, magari da riduzione delle tasse sui più ricchi e sulle aziende, e poco appetito per tagli di spesa che incide sulla carne viva di quell’elettorato certamente non abbiente ma che a Trump si è affidato e tornerebbe ad affidarsi per ottenere “protezione” dal mondo ostile, vera o immaginaria.

Quindi, ribadiamolo: il futuro fiscale degli Stati Uniti, e quindi del mondo attraverso il canale di conduzione dei mercati finanziari, appare a crescente rischio. Quando l’oligarchia incrocia il populismo, accadono cose del genere.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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