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Il ragionier Ugo Fantozzi: la “situazione Murphy”

di Adolfo Fattori

Era il 1968 quando in televisione, alla Rai, compare – dopo aver esordito alla radio – per la prima volta Paolo Villaggio, in un programma che farà epoca, Quelli della domenica, primo esempio di un modo di fare Tv innovativo, perché ironico, nonsense, “anticomformista”, come si diceva allora, grazie a nuovi animatori – oltre a Villaggio, Cochi e Renato, Rick e Gian, e altri, tutti provenienti dal cabaret. L’onda del cambiamento si faceva sentire anche lì, evidentemente…

E fu in quel programma che, importandolo dalla sua trasmissione in radio, Il sabato del villaggio, e dai racconti che poi pubblicherà e dai film che ne verranno tratti, l’attore genovese, insieme agli altri suoi personaggi (Giandomenico Fracchia, il Professor Kranz), introdusse il ragionier Ugo Fantozzi, piccolo impiegatuccio di ultima categoria, e sfigato gigantesco – di tutti i personaggi creati da Villaggio, sicuramente il più tenace, il più resistente, il più mito, capace di conquistarsi uno spazio (immortale?) nell’immaginario collettivo italiano degli ultimi cinquant’anni.

Come documenta benissimo il giovane sociologo Marco De Simone nel suo Memorie dal sottoscala (Amarganta, 2015), saggio in cui ricostruisce la storia di questa gigantesca icona della narrativa comico-grottesca non solo nell’editoria, nel cinema, in Tv, ma anche nei suoi legami con le trasformazioni che hanno investito l’Italia negli ultimi decenni del Novecento dal punto di vista del rapporto col lavoro, della vita quotidiana, del passaggio verso il postmoderno all’interno delle grandi burocrazie, della “gabbia d’acciaio”, come scriveva Max Weber, costituita dalle società moderna matura.

E quindi, mentre nel paese emergeva e si gonfiava il movimento – prima operaio, poi allargato a sempre più ampie categorie sociali – dei lavoratori, in contrappunto si sviluppavano le “avventure” del piccolo ragioniere, a rielaborare e nobilitare i luoghi comuni sui “borghesi piccoli piccoli”, perdenti a priori, circolanti nelle rappresentazioni sociali e nell’immaginario, a riscattarli in qualche misura, inchiodandoli ad un destino metafisico, quello della “legge di Murphy”, non a caso nata in un ambiente di lavoro, in America: “Se qualcosa può andar male, lo farà”. E a Fantozzi tutto va sempre male. Al lavoro, a casa, nello sport, nelle vacanze. Sposato con una donna già sfiorita in partenza – che non ama più, innamorato perso di una bruttona collega d’ufficio che naturalmente ride di lui – padre di una filgia brutta, sbeffeggiata dai colleghi del ragioniere – che lui ama teneramente, conduce un’esistenza di entusiasmi destinati tutti ad essere frustrati – Ugo Fantozzi è un gigante nella sua natura di parafulmine della sfortuna, cui resiste come una roccia senza, praticamente mai, rassegnarsi o arrendersi. Un Sisifo contemporaneo, creatura della vita e della società contemporanea, che dal sottoscala in cui lavora emerge a ricordarci il nostro destino di individui che si percepiscono come disancorati, disorientati, disperati. Di cui il ragioniere è il capro espiatorio, che accolgie su di sé tutti i mali della contemporaneità metropolitana che viaggia verso il tardomoderno.

Marco De Simone esplora e descrive l’intero universo fantozziano con gli strumenti della sociologia – e con l’affetto dell’appassionato – usando come strumenti di analisi quelli degli studi sull’individualizzazione moderna, sull’affermarsi delle burocrazie, sulle derive della vita quotidiana degli anni che ci conducono alla fine del secondo millennio, sullo scarto e le frizioni che si creano fra l’esplodere delle culture del desiderio e l’affermarsi della rivendicazione di una vita più gratificante e le concrete condizioni di esistenza delle classi subordinate, proprio nel periodo della proletarizzazione dei ceti piccolo borghesi e impiegatizi, nel passaggio dagli anni del “boom economico” a quelli dell’austerity e della crisi petrolifera. Ecco, il ragionier Ugo Fantozzi rappresenta proprio questo punto di frattura, il momento in cui avviene la frizione fra le conseguenze dei processi di modernizzazione: un momento di implosione, di catastrofe, in cui la società di massa comincia a tramontare,e in cui i singoli individui, non più sorretti dalla forza collettiva dei sindacati, dei partiti, della solidarietà cominciano a percepirsi di nuovo – come nelle culture tradizionali – come abbandonati a forze trascendenti assolute, meccaniche, prive di volontà, soggette a leggi inconoscibili, se non nella sintesi, appunto, della “legge di Murphy”. Non forze appartenenti al sacro, quindi, come quelle arcaiche, dei bizzosi e volubili che muovevano gli uomini secondo i loro capricci, quanto forze universali e “naturali”, ma sempre cieche e automatiche: è per questo che Ugo Fantozzi ci ha rappresentato – e ci rappresenta – ancora tutti, fino a diventare un piccolo, ma mitico, eroe per tutti noi, come emerge dalle aconsiderazioni di De Simone. Che mette in luce un altro aspetto, essenziale, della personalità di Fantozzi: il suo riscattarsi dalla dimensione grottesca di partenza per accedere, grazie al meccanismo reiterativo e spietato delle sue sconfitte, alla statura di personaggio drammatico, paragonabile a Goljadkin, il protagonista del Sosia di Fëdor Dostoevskij, “eroe” idealtipico, anche lui, di un’epoca di passaggio, quella che in Russia – ancora la Russia zarista – cominciava a intravvedere l’affermarsi della modernità in uin paese ancora largamente feudale. Goljadkin è un altro imdividuo inadatto al mondo in cui vive. Al di là delle forme con cui si manifesta la sua inadeguatezza al mondo (fantasie psicotiche allucinatorie, o irruzione del soprannaturale nella banale quotidianità di un povero impiegatuccio?), Jakov Petrovič Goljadkin è prima di tutto sfortunato, un perdente nato. Uno di quei personaggi chwe sono destinati in partenza ad abitare nella gabbia d’acciaio. Che non solo li terrà imprigionati, ma che vedrà stringere pian piano le sue sbarre fino a stritolarlo. Cosa che puntualmente succederà. Al piccolo impiegatuccio ottocentesco russo, però, non al suo erede moderno italiano, che resisterà, bastonato ma coriaceo, abituandosi con stoicismo, mai con rassegnazione, al destino dei perdenti, ma conquistandosi un posto inamovibile nel nostro costume e nel nostro immaginario.

 

 

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