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Il post mortem dell’euro-ordalia

Partecipiamo anche noi al momento di sano cazzeggio in cui tutti gli italiani scoprono di essere analisti e politologi, inseguendo correlazioni spurie su un esito elettorale piuttosto eclatante, anche se come sempre c’è chi lo aveva detto. Non prendete troppo sul serio quello che leggerete di seguito.

Per essere originali diciamo che Renzi ha stravinto, in un modo quasi inquietante. Futile dire se lo ha fatto perché alla fine l’elettorato ha avuto un rigurgito di centrismo terrorizzato di fronte alle farneticazioni di Grillo oppure perché genuinamente convinto dalla tempesta di chiacchiere che Renzi gli ha rovesciato addosso negli ultimi tre mesi. Ora il peso specifico del Pd e dello stesso premier sono destinati ad aumentare di molto in Europa, sia per l’eventuale elezione di Martin Schulz alla guida della Commissione che per il semestre italiano di presidenza.

Tutti gli occhi sono ora puntati sulla Francia, che si trova con un presidente delegittimato come mai nella sua storia contemporanea. L’elemento positivo di questo esito elettorale è l’aver fatto affiorare alla coscienza collettiva europea che la diarchia franco-tedesca, che già era morta da tempo sul piano economico (malgrado l’amorevole girarsi dall’altra parte della Merkel), ora lo è anche su quello politico.

Sul piano economico, il paesaggio del continente resta ampiamente disseminato da cumuli di macerie fumanti, di cui il più corposo è quello italiano. Il primo passaggio dirimente (forse) sarà quello del 5 giugno, con la decisione della Bce su un ulteriore allentamento della politica monetaria. Oggi Mario Draghi, dal Portogallo, dove è in corso l’equivalente europeo del simposio Fed di Jackson Hole (almeno, questa sarebbe l’idea), ha nuovamente ammonito circa il rischio di “una spirale negativa tra bassa inflazione, aspettative inflazionistiche cedenti e credito, in particolare in paesi stressati”. In altri termini, ha evidenziato nuovamente il rischio di un genocidio di piccole e medie imprese in paesi bancocentrici della periferia dell’Eurozona. Ogni suggestione italiana è puramente non casuale.

Prima del meeting della Bce, da cui chi scrive non si attende sfracelli, ci sarà il giudizio sul DEF e sul Programma Nazionale di Riforme del nostro paese, il prossimo 2 giugno. Era previsto da molto tempo, qualche mattacchione si è adontato perché l’evento cade “dopo le elezioni europee”. Tutto ciò premesso, non è che da oggi avremo fiumi di caffelatte e montagne di marzapane. Il nostro paese resta in condizioni pietose, frutto di lustri di incuria di politica economica e soluzioni semplici e massimamente disfunzionali spacciate per risolutive, che hanno trovato l’appuntamento col destino nella cocciutaggine tedesca, e probabilmente non poteva che andare così. Lo stesso Renzi, è bene precisarlo, si è sinora ampiamente inscritto in questo mainstreamdella storia italiana con una impressionante serie di chiacchiere, pensiero magico e correlazioni spurie che lo collocano all’ideale punto di arrivo di una lunga storia di leadership affabulatorie, escludendo gli stati di alterazione della coscienza portati in scena dal M5S, che sono in un mondo a parte. Il rischio più concreto è che ora Renzi prosegua su quella strada (e lo farà, tranquilli) dicendo “il Popolo lo vuole”, e saremo di nuovo nei guai.

Come che sia, ora il pallino è inequivocabilmente nel campo tedesco. Non aspettatevi soluzioni rapide e miracolose, però: al massimo un lieve ulteriore allentamento della posizione fiscale dell’Eurozona, negoziato con il coltello tra i denti. E ricordate comunque che il ritardo dell’Italia rispetto al resto d’Europa, in termini di reattività a condizioni di presunta ripresa esterna, è problema caratteristicamente nostrano. Tutto il resto, sono e saranno analisi ed editoriali basate su giochi di ombre e sulle solite correlazioni scambiate per causalità. Ma quello lo sapete da tempo, no?

 

 

Foto: Rock Cohen/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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