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Il populismo vince anche in Finlandia

La Finlandia è l'ultimo Paese investito dall'ondata populista, cavalcata da movimenti che pronti a sferrare attacchi contro immigrati e istituzioni ma del tutto incapaci di proporre vie d'uscita alla crisi. La vittoria del populismo è una sconfitta per tutti. 

Le democrazie europee sono in affanno, colpite al cuore da un crescente sentimento populista. L'ennesima prova l'abbiamo avuta in Finlandia, dove le ultime elezioni hanno segnato una decisa virata a destra del Paese scandinavo.

Il partito dei Veri Finlandesi, guidato dall'europarlamentare Timo Soini, ha registrato un trionfo oltre ogni aspettativa, raggiungendo il 20,4% dei voti, il quintuplo rispetto a quelli ottenuti nell'ultima consultazione. Un bottino che vale 39 seggi su 200 nel Parlemento di Helsinki. E poco è mancato che non diventasse la prima formazione politica del Paese, superato solo dal Partito della Coalizione Nazionale del Ministro delle Finanze uscente Jyrki Katainen. Probabile che saranno questi i principali partiti a guidare la futura coalizione di governo.

Il grande sconfitto di queste consultazioni è il Partito di Centro del premier uscente Mari Kiviniemi. crollato di otto punti percentuale e superato non solo dal partito di Katainen ma anche dai socialdemocratici. In coda i Verdi, unici a rifiutare a priori un'alleanza con il partito di Soini.

“È una giornata storica”, ha commentato Soini, che ora aspetta una chiamata al tavolo delle trattative per la formazione di un nuovo governo. Ma come si spiega questa decisa svolta a destra da parte della Finlandia, Paese tradizionalmente europeista?

L'esplosione netta del populismo e dell'euroscetticismo rappresentano la logica conseguenza del crescente malumore nei confronti della classe politica tradizionale, da un lato accusata di scarso polso in sede europea su temi controversi quali l'immigrazione e gli aiuti agli Stati in difficoltà, e dall'altro coinvolta in uno scandalo su finanziamenti di dubbia provenienza all'ex partito di maggioranza, che lo scorso anno portò alle dimissioni del premier Matti Vanhanen.

In questo scenario, Timo Soini, che alle europee del 2009 era stato il candidato più votato nel Paese con oltre 130.000 preferenze, ha avuto gioco facile nel cavalcare l'onda del malcontento attraverso un programma costellato di no: no all'aborto, no alle unioni omosessuali, no agli immigrati e no al salvataggio di Stati in crisi come Grecia e Portogallo. Soprattutto quest'ultimo tema è bastato a mobilitare molti più elettori rispetto alle precedenti elezioni del 2007.

Resta ora da capire in che misura cambierà la politica estera di Helsinki con l'ingresso di Soini. Adesso che l'euroscetticismo ha messo le radici anche presso gli imperterriti finlandesi sarà più difficile affrontare le sfide che tormentano l'Europa (e l'euro) in questo inizio di 2011.

L'esito delle elezioni in Finlandia rappresenta solo l'ultimo episodio di una lunga lista di shock elettorali che hanno caratterizzato i Paesi occidentali, culla della democrazia. Da alcuni anni, infatti, nelle nostre latitudini il voto popolare è vissuto con crescente apprensione.

Da una parte, Paesi dove il bipolarismo era una realtà consolidata, come il Regno Unito, per la prima volta fanno i conti con le difficoltà legate alla presenza di governi di coalizione. Dall'altra, l'eccessiva frammentazione dei partiti e il consolidarsi di formazioni di estrema destra hanno reso altri governi più instabili e meno aperti alla cooperazione comunitaria.

Timo Soini, come un po' tutti i suoi colleghi populisti sparsi per il Vecchio Continente, non ha la più pallida idea di cosa proporre per migliorare il presente stato di cose. Ha solo infiammato le folle ripetendo di no a tutto: omosessuali, immigrati, europeisti che fossero. Ha addirittura proposto di far uscire il Paese dall'euro, facendo leva sull'opinione popolare contraria al salvataggio del Portogallo. La quale probabilmente ignora quanti nefasti effetti avrebbe una tale decisione sull'economia finnica. Ma tanto è bastato ai Veri Finlandesi per garantirsi un quinto del consenso nazionale.

In tutto l'Occidente la crisi economica ha inasprito gli umori della popolazione, risvegliando vampate populiste e vecchi nazionalismi. Nessun Paese europeo è rimasto immune. Le difficoltà legate ad un futuro incerto hanno suscitato un sentimento di frustrazione e sfiducia verso le classi politiche tradizionali, ritenute a torto o a ragione responsabili dell'attuale situazione di precarietà. Un'opinione a cui ha fatto da naturale complemento un senso di chiusura verso gli stranieri. In questo scenario, i movimenti di estrema destra si sono rivelati i migliori interpreti del sentimento d'insicurezza delle masse. Un po' ovunque sono nate forze nuove che esprimono le mutazioni subite dalle società, ma che hanno il difetto di parlare alla pancia e non alla testa delle persone.

Che dire, ad esempio, di quanto avviene nel Belpaese, dove la (in)stabilità del governo è minacciata non da un'(inconsistente) opposizione, ma dagli umori di un partito populista, xenofobo e antinazionale, indispensabile alla maggioranza parlamentare, incapace di una proposta originale e tuttavia mai domo nell'alimentare i sentimenti contro gli immigrati e nel mantenere l'impunità di chi da 15 anni rifiuta di pagare le multe per le quote latte?

I fenomeni populisti hanno due risvolti. Il primo, a livello interno, è che in ciascuno Stato i partiti tradizionali hanno visto erodere il loro potere in favore di movimenti . Il secondo, a livello continentale, è che il funzionamento dei meccanismi decisionali della Ue viene ostacolato fin quasi alla paralisi.

La naturale conseguenza, a livello internazionale, è il logoramento delle relazioni tra gli Stati, ormai incapaci di assumere decisioni condivise perché ciascun governo è tenuto in ostaggio dalla propria opinione pubblica interna. Alla cooperazione, che doveva essere la naturale conseguenza del mondo globalizzato, si è così sostituita la rivalità, caratterizzata da atteggiamenti di chiusura e misure protezionistiche. Ciascuno difende la propria nicchia, incosciente che, nessuno in Occidente può superare da solo il declino del vecchio sistema americo-eurocentrico, con il rischio concreto di vedersi risucchiato nell'orbita delle potenze emergenti.

Per i vari Paesi travolti dall'ondata populista, i rischi maggiori sono l'immobilismo interno e l'isolazionismo internazionale. Con il risultato che, quando la ventata populista sarà passata, sarà più difficile sedersi intorno ad un tavolo per riprendere quel dialogo che oggi i populismi sono tanto smaniosi di soffocare.

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