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Il passato che ritorna: la terribile epidemia di peste del 1656 a Napoli

La pandemia di Coronavirus che sta oggi mietendo vittime e devastando economicamente non è certamente la peste che colpì Napoli nel 1656. Troppo diversi sono i contesti e le situazioni. Tuttavia, non mancano le analogie, specie se consideriamo le miserie e le fragilità che allora, come oggi, evidenziano i limiti della politica come della scienza, gli egoismi e le irresponsabilità, le presunzioni e la miseria morale. Esse dimostrano che la storia ritorna e che non è vero che il progresso ci preserva sempre dalla vulnerabilità né, tanto meno, che ci rende migliori degli uomini del passato. 

Napoli 1656.

A metà ‘600 Napoli era la seconda città d’Europa per popolazione, contando 350.000 abitanti e, considerando anche i casali vicini, 450.000.

Essendo capitale, attirava dalla campagna chi fuggiva dalla morsa del­ regime feudale che attanagliava le province per cercando sistemazione e lavoro presso la Corte, presso qualche famiglia nobile, negli uffici, presso qualche artigiano o al porto. Solo nel 1631, dopo una terribile eruzione, circa 40.000 senza-tetto provenienti dalle zone alle falde del Vesuvio vi si erano rifugiati.

I palazzi, una volta di uno o due piani, si erano appesantiti di soprelevazioni. La luce del sole stentava ormai ad arrivare ai piani bassi, cosicché le strade sembravano sempre più strette e anguste. Nove anni prima, nel 1647, c’era stata la rivolta di Masaniello, in cui il disagio sociale e la miseria erano emersi violentemente con conseguenze che ancora pesavano sull’economia del Viceregno.

Ma dietro l’angolo della storia c’era in agguato una calamità ancora più grande.

Correva l’anno 1656 e già a gennaio alcuni soldati spagnoli, provenienti dalla Sardegna, ricoverati nell'ospedale dell'Annunziata, erano morti con strani sintomi. Un medico, Giuseppe Bozzuto, aveva capito che era peste e l'aveva diagnosticato, ma era stato messo a tacere. La preoccupazione delle autorità erano i danni economici e le complicazioni politiche che potevano venire dalla diffusione della notizia. Nè avevano fatto niente per fermare l'esodo dalla capitale, che da gen­naio a maggio era divenuto massiccio, con la micidiale conseguenza di portare il contagio nelle province.

Solo nell'ultima decade di maggio, l'epidemia fu ufficialmente riconosciuta e si elesse una Deputazione della salute per contrastarla. Solo allora fu isti­tuito un cordone sanitario, proibendo a chiunque di entrare ed uscire dalla città senza bollettini di sanità firmati. Considerevoli somme furono anche spese per medicinali, aceto e verderame (usati come disinfettanti), tela per bardare i vestiti, cappucci e lenzuola, sedie per trasportare gli infermi, calce per coprire i morti (vedi Eduardo Nappi, Aspetti della società e dell’economia napoletana durante la peste del 1656). Ma la medicina del tempo era primitiva ed impotente contro il morbo. Non si trovava di meglio che far bruciare i baccalà e le sarache (pesce sotto sale), credendoli veicoli della malattia.

I malati erano portati ai lazzaretti, dove trovavano medici, barbieri ed ecclesiastici, che si avvicendavano di continuo, per l’alta incidenza di decessi. C’erano poi i sediari (i monatti) per il trasporto degli ammalati. Essi avevano alle gambe delle campanelle, il cui suono divenne sempre più sinistro, e dormivano di notte fuori Porta Capuana, la porta della città che dava verso nord.

Il morbo si presentava con forti emicranie, bolle per tutto il corpo e bubboni all'inguine ed alle ascelle. Una commissione di medici sezionò alcuni cadaveri per studiare le cause dei decessi, suggerendo di trattare i bubboni con aceto e di farli per poi inciderli. Ma il morbo incurante delle teorie e delle pratiche mediche infuriava e seminava morte, nel periodo più tragico anche mille al giorno. 

I morti furono sepolti nelle grotte e nelle terresante fin quando queste si colmarono e si dovette seppellire altrove. Fu costruito un nuovo cimitero e si scavarono grandi fosse lungo alcune strade. Si utilizzarono finanche le cisterne. Ma non bastò, perché c'erano cadaveri dappertutto nelle strade. Alla fine li si dovettero bruciare.

Grandi processioni furono organizzate per implorare il soccorso della Madonna o dei santi, ma esse ebbero, per via dell’accalcarsi della gente, effetto opposto a quello sperato, agevolando il propagarsi del morbo anche nei quartieri fino ad allora risparmiati. 

I decessi co­minciarono a ridursi solo ad agosto. Il quattordici ci fu un violento acquazzone che ebbe l'effetto di purificare l'aria. Le acque scesero in modo così violento dalle colline circostanti che spazzarono via quanto incontrarono, fino a far scop­piare il condotto della cloaca posta sotto via Toledo, che era otturata da masserizie e corpi di appestati. Alcuni palazzi crollarono e ci furono altri morti, ma il morbo regredì, fino a scomparire nel mese di dicembre.

Ma non fu facile per i sopravvissuti tornare alla normalità in una città ormai spettrale. Si aveva l’impressione di essere regrediti ad una condizione primitiva e barbara, come scrisse il Valentino, un poeta dell’epoca:

Napole mio, che t’è succeduto,

e comme si de botta sconzertato,

già ch’ogni hommo de niente è resagliuto

e chiù de n’hommo buono è sconquassato…

 

Napoli mia che ti è succeduto: e come sei d'un un tratto sconcertato, giacché ogni uomo da nulla è risalito e ogni uomo dabbene è sconquassato”. (Valentino, Napoli scontraffatto dopo la peste, Napoli, 1671).

E fu forse ispirandosi a quanto era successo che un figlio di un sopravvissuto alla peste, Giambattista Vico, teorizzò la storia non come un corso trionfale, ma come presentante sempre il rischio del ricorso, ossia dell’azzeramento di tutto quanto si è costruito e la regressione alla barbarie

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