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Il mondo dopo Fukushima

L'11 marzo 2011 un'onda anomala (preferisco chiamarla così; lo tsunami è un fenomeno naturale, quella no) generata da un terremoto sottomarino si abbatte sulla costa orientale giapponese, investendo in pieno la centrale nucleare di Fukushima Daiichi.

Qui troviamo una slideshow e qui una cronologia sintetica di quei drammatici momenti.

Dallo scorso dicembre, nove mesi dopo l’incidente, la situazione appare stabile, con i reattori in stato di chiusura fredda, una condizione che esclude ragionevolmente rischi immediati. In parole povere, la centrale non sta più rilasciando isotopi radioattivi come iodio-131 e cesio-137. In ogni caso, è stato il peggiore incubo atomico che la storia ricordi e l’unico altro incidente, insieme a Chernobyl, classificato come livello 7 della scala Ines.

A tutt'oggi non è chiara quale sia stata la reale portata della contaminazione. In maggio è atteso un rapporto del Committee on the Effects of Atomic Radiation delle Nazioni Unite che dovrebbe fare un po' di chiarezza. Gli studi finora condotti sui luoghi dell'incidente non lasciano presagire niente di buono.
I primi dati sull'inquinamento resi noti da Greenpeace lo scorso dicembre dimostrano che a un anno dall’incidente, la radioattività è ancora una seria minaccia per la popolazione locale.

Nel dettaglio, una squadra di ricercatori ha rilevato la radioattività nel centro della città di Fukushima e nel vicino sobborgo di Watari (qui la mappa del monitoraggio), trovando valori di oltre mille volte superiori alla radioattività di fondo registrata nell’area prima dell’incidente dell’11 marzo. In un anno i livelli di radioattività non si sono ridotti in modo significativo, il che dimostra come contaminazione sarà cronica e duratura. Per bonificare l'area in modo che la radioattività scenda sotto i 5 millisivert (mSv) sarà necessario asportare una quantità di terreno dello spessore di almeno 5 cm per svariati kmq. Basta questo per rendere l'idea di quanto sia profondo il contagio provocato dall'incidente.

Le autorità hanno costretto all'evacuazione oltre 100.000 persone residenti nel raggio di 40 km dalla centrale, ma l’organizzazione indipendente Rebuild Japan Initiative Foundation, costituitasi allo scopo di indagare sugli effetti dell'incidente, ha rivelato che nei drammatici giorni dopo l’11 marzo il governo considerò perfino l’ipotesi di evacuare Tokyo in ragione della sua vicinanza (250 km) a Fukushima .

Non va dimenticato che nei mesi caldi dell'emergenza il governo giapponese aveva più volte cercato di minimizzare l'incidente. Oggi sappiamo che poteva essere una catastrofe.

Proprio a proposito dell'evacuazione, il rapporto di Greenpeace non risparmia accuse di inefficienza alle autorità locali. Mentre il lavoro di decontaminazione viene condotto a macchia di leopardo, gli abitanti ricevono pochi e inadeguati aiuti per spostarsi in zone meno a rischio. A tal fine Greenpeace Giappone ha richiesto una serie di misure di protezione e decontaminazione affinché i cittadini siano aiutati ad allontanarsi da aree ad elevato rischio come Watari, se lo desiderano. Secondo l'organizzazione gli abitanti saranno esposti alle radiazioni ancora a lungo a causa della lentezza e inefficienza evidenziati nell'opera di decontaminazione.

Non è chiaro nemmeno quali saranno gli effetti ultimi sulla loro salute. I dati ufficiali della Fukushima Medical University dichiarano che l’esposizione della popolazione alle radiazioni sia stata minima: il 99,3% dei 10.000 residenti vicino alla centrale sottoposti a screening avrebbero ricevuto meno di 10 mSv di radioattività nei primi quattro mesi dopo l’incidente. La dose più alta registrata è stata di 23 mSv, un quarto della soglia di 100 mSv connessa ad un più elevato rischio di cancro. Un gruppo di ricercatori americani ha concluso che persino i lavoratori dentro la centrale sono stati esposti a livelli di radiazioni 10 volte inferiori rispetto alle 500mila persone che costruirono il sarcofago sdi Chernobyl. A Fukushima, il rischio di ammalarsi di tumore potrebbe aumentare dello 0,002%, e la probabilità di morire dello 0,0001%. Percentuale troppo esigua perché si possa distinguere i casi di tumore connessi alle radiazioni rispetto all’incidenza sulla popolazione generale.

Resta il fatto che nelle fasi iniziali dell'incidente molte persone vulnerabili sono state esposte a radiazioni di alcuni ordini di grandezza maggiori rispetto al limite internazionale di esposizione di 1mSv per anno, le cui conseguenze potranno valutarsi solo nel lungo periodo. Questo rapporto smentisce le rassicuranti previsioni di cui sopra affermando che in conseguenza dell'esposizione potranno registrarsi circa 420.000 casi di tumore nei prossimi anni cinquant'anni. Solo il tempo dirà chi ha ragione.
Per adesso abbiamo la testimonianza in prima persona di quel presentatore tv che mangiò l'insalata raccolta nei pressi della centrale. Voleva rassicurare la gente, ora ha la leucemia.

Benché il nucleare sia stato il primo (e finora unico) esempio di tecnologia inventata e poi ripudiata dall'uomo, la vicenda di Fukushima non ha modificato di una virgola i piani di espansione dell'industria dell'atomo. A parte il phase out deciso in Germania e il referendum qui in Italia, i dati della World Nuclear Organization dimostrano che nel mondo la corsa al nucleare non si è fermata. Anzi. L'Economista parla di sogno non riuscito, ma nel mondo ci sono decine di reattori in fase di costruzione e molti di più in fase di progettazione.
È notizia di pochi giorni fa che altri cinque Stati (Vietnam, Bangladesh, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Bielorussia) inizieranno la costruzione dei loro primi reattori entro la fine di quest'anno.

Presto agli EAU si aggiungeranno le altre petromonarchie del Golfo, che puntano sulle potenzialità dell'atomo per provvedere al proprio crescente fabbisogno energetico interno senza intaccare le quote di esportazione di idrocarburi verso le energivore economie in Occidente ed Estremo Oriente – con possibili risvolti militari nel caso dell'Arabia Saudita. Fa eccezione il Kuwait, che poche settimane fa ha rinunciato a proseguire il proprio programma nucleare.

Tra i Paesi emergenti spiccano le 60 nuove centrali progettate o in corso d'opera in Cina e il non meno sontuoso programma atomico promosso dall'India.

Gli Stati Uniti hanno autorizzato proprio quest'anno la costruzione di due nuove centrali, nonostante i recenti incidenti di Fort Calhoun, Byron e San Onofre abbiano già dimostrato come quelle già esistenti siano tutt'altro che sicure – al pari di quelle russe e cinesi.

La volatilità del mercato petrolifero, la supposta promessa di indipendenza energetica, nonché quella populistica di tariffe elettriche meno care per i cittadini spingono i governi ad avventurarsi sulla strada dell'atomo. Trascurando il fatto che l'uranio con cui alimentare le centrali potrebbe esaurirsi già entro i prossimi quarant'anni.

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