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Il governo Monti in un pantano digitale

La discontinuità sistemica inaugurata dal governo tecnico guidato da Mario Monti, chiamato a svolgere l'ingrato compito di risanatore dei bilanci dello Stato, non sembra essere molto evidente in materia di regolamentazione di Internet, mercato televisivo e, soprattutto, in quell'intersezione che si crea tra i due insiemi. L'esecutivo "dei professori" è ormai a palazzo Chigi dal novembre scorso, otto mesi durante i quali il consiglio dei ministri ha inanellato una serie di piccoli successi alternandoli a grosse concessioni al sistema che ha governato per decenni l'ambiente mediatico della Penisola.

La partenza è stata timida, ma tutto sommato di segno positivo. Già nel Pacchetto semplificazioni”, presentato alla fine di gennaio, veniva infatti riservato un occhio di riguardo alle potenzialità di Internet e delle "reti telematiche". Il focus è lo sviluppo della banda larga e l'imposizione dell'open data a tutta la rete della pubblica amministrazione che, contenstualmente, dovrà condividere i dati tra i vari settori sfruttando le tecnologie “a nuvola”. A marzo partiva così il percorso dell'Agenda Digitale targata Monti, coordinata da una "cabina di regia" che. alla metà del mese. era pronta a partire (qui il documento ufficiale della roadmap). Benissimo per un paese che in materia di digital divide si trova sempre a guardare con invidia gli altri paesi europei.

Alla "cabina" si è affiancata in seguito anche l'Agenzia per l'Italia digitale, che però non è altro se non il nuovo nome della DigitPa, l’ente nazionale per la digitalizzazione della pubblica amministrazione che ha cambiato sigla più volte. senza mai arrivare a svolgere il suo compito a regime. L’ennesimo lifting, insomma, al quale si accompagnano le prime perplessità sulla reale discontinuità alla quale si accennava poco sopra. Le nomine dell’Agenzia sembrano infatti destinate a seguire il destino di quelle di Rai ed Agcom: lottizzazione spinta e tanti saluti a trasparenza e meritocrazia. La modalità si assegnazine dei compiti inoltre, facendo comfusione tra le varie agenzie, rischia di provocare cortocircuiti nella gestione dello spazio pubblico online, senza contare i ritardi con i quali si stanno consumando le nomine stesse. Ultimamente è stato Paolo Donzelli, tra le altre cose responsabile della sopra citata “cabina di regia”, a proporre la sua idea sull'utilizzo della posta elettronica certificata, in merito alla quale assicura che presto sarà possibile eleggere a domicilio digitale la casella personale. Una bellissima idea, se non fosse che è possibile farlo dal 2006. E al passare delle settimane la situazione sembra entrare in ulteriore stallo e la cabina di regia stenta ad imprimere la svolta verso l'Italia 2.0.

L’atteggiamento del consiglio dei ministri nei confronti della rete aveva assunto tinte fosche, soprattutto il 29 aprile scorso, quando il ministro della Giustizia Paola Severino, intervendo al festival del Giornalismo di Perugiaaveva dichiarato di vedere di buon occhio l’introduzione dell’obbligo di rettifica per i blogger perché “la Rete, in fondo, è troppo deregolamentata”. Basta solo accennare che argomento della discussione è la famosa norma “ammazza blog”, rimbalzata negli utlimi anni da un disegno di legge del dicembre 2006 firmato da Ricardo Franco Levi, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Prodi (un'inziativa legislativa che il Times di Londra, il 24 ottobre 2007, arrivò a definire come “un attacco geriatrico ai blogger italiani”), al decreto intercettazioni dell'ex guardasigilli Angelino Alfano, fino alla bozza del decreto giustizia che l'attuale governo stava mettendo a punto proprio nei giorni del festival.

Ma è sulla gestione del mercato televisivo italiano che Monti e la sua squadra si sono maggiormente macchiati di “continuità” con l'ancien regime. Sembrava lodevole l’aver annullato, ad aprile, il beauty contest che avrebbe regalato preziosi spazi nell’etere al duopolio Rai-Mediaset; ma oltre ai pesanti dubbi che si sono sollevati nelle ore successive al provvedimento, appare chiaro che la compagnia del Biscione, che contro la decisione dell’esecutivo ha fatto ricorso al Tar del Lazio, sembra conservare importanti santi in Parlamento.

Nella legge di conversione del decreto sui contributi all'editoria viene infatti piazzata una norma che amplifica la portata della legge Gasparri, la 112 del maggio 2004. Per chi l'avesse dimenticato, il testo firmato dall'attuale capogruppo del Pdl al Senato fu una raffinata operazione di congelamento dello status quo a tutto vantaggio di Mediaset. Veniva infatti previsto il Sistema integrato delle comuncazioni (Sic), un paniere che delimita un'area entro la quale nessun soggetto può superare il 20% di ricavi complessivi pena l'essere considerato in posizione dominante e dunque lesiva del pluralismo. Detto così sembra una norma di buon senso, se non fosse che il paniere in questione è talmente onnicomprensivo da attenuare la portata dello strapotere dei dupopolisti nel mercato televisivo diluendolo in un più vasto insieme di settori. Un insieme che, e veniamo ai nostri professori, viene ora ulteriormente slargato; nel Testo unico della radiotelevisione, figlio della legge Gasparri, vengono inseriti tra i “ricavi” anche quelli derivanti da “pubblicità on line e sulle diverse piattaforme anche in forma diretta, incluse le risorse raccolte da motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione”. 

L'obiettivo sembra essere quello di dare all'Agcom maggiore potere di intervento sugli “over the top” della Rete come Google, Facebook e affini. Il che non sarebbe scandaloso se non si stesse considerando, come spiega l'avvocato Guido Scorza su L'espresso, alla stregua di soggetti editoriali alcune imprese del Web che non hanno un controllo di natura, appunto, editoriale su ciò che passa sotto il loro logo. Inoltre, sempre stando all'analisi di Scorza, si sottrae ad un ampio dibattito parlamentare una norma che innesca un effetto domino che abbassa ulteriormente la percentuale di “estensione sul mercato” di Mediaset allargandone, di conseguenza, i confini dell'impero che è già suo. Questo sì che sembra poter ledere il pluralismo, e viene da riflettere sul fatto che si parla di una norma spinta verso la Gazzetta ufficiale da un esecutivo che poggia, anche sui voti del Partito Democratico, che sul conflitto di interessi del Cavaliere ha costruito più di una campagna elettorale.

E non va meglio con l’ultima fresca assegnazione di frequenze agli operatori del broadcasting, atto che, stando all’analisi di Alessandro Longo, rischia di bloccare importanti spazi per la banda larga nel 2016, quando un terzo di essi dovranno essere destinati alla broadband, come previsto dalle norme europee.

Mario Monti ha assicurato nei giorni scorsi che nel 2013 non si ricandiderà per la poltrona di premier, lasciando la partita in mano agli scalpitanti leader di partito della seconda repubblica. Ha dunque meno di un anno per rilanciare l'azione legislativa sulla Rete e sull'intero panorama mediatico italiano tirandola fuori dalle sabbie mobili di palazzo dentro le quali sembra essersi impantanata strada facendo.

Magari il propulsore sarà il bando diffuso dal ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca il 5 luglio, il quale certifica lo stanziamento di 655 milioni di euro per lo sviluppo di "Smart cities and communities": le “comunità e città intelligenti” dovranno fare leva sulle tecnologie digitali per incrementare i servizi in settori come sicurezza del territorio, invecchiamento della società, tecnologie di welfare ed inclusione, qualità della vita, giustizia, scuola, gestione dei rifiuti e dell'energia e tecnologie cloud per la pubblica amministrazione. Proprio il cuore di quell'Agenda Digitale. In bocca al lupo.

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