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Il fracking è una questione politica

Le decisioni sulle tecniche di fracking non devono riguardare soltanto scienziati ed esperti: i cittadini si aspettano politiche più partecipative. 

Di Roberto Cantoni

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Tutto si può dire del fracking, salvo che sia una questione risolta. La controversia sull’uso delle tecniche di fratturazione idraulica per la ricerca di gas di scisto, al contrario, è più che mai attuale, anche se in Italia se ne sente parlare poco. OggiScienza ha affrontato l’argomento l’anno scorso, mettendo in evidenza rischi e benefici del procedimento inventato negli Stati Uniti. Ed è proprio negli Usa che il problema è più sentito: in alcuni dei cinquanta Stati del Paese, come Texas e North Dakota, infatti, le rocce del sottosuolo vengono fratturate quotidianamente e il gas ha già da tempo cominciato a fluire alla superficie; in altri, per esempio New York e Pennsylvania, si sono invece adottati provvedimenti restrittivi, arrivando fino alla proibizione dell’uso di questa tecnica.

L’industria estrattiva, e in particolare il fracking in tutte le sue sfaccettature, sono stati tra i temi più presenti alla conferenza della Società americana di antropologia applicata, appena conclusasi a Pittsburgh, in Pennsylvania. «È un argomento molto sensibile, di cui non sempre si ha voglia di parlare. Alcune imprese hanno letteralmente comprato il silenzio dei cittadini: “Voi ci lasciate fratturare le rocce, noi vi forniamo acqua potabile, ma se vi chiedono qualcosa va tutto bene”. In pratica, se ci dovessero essere episodi d’inquinamento delle falde acquifere in una certa zona, chi ha subito l’inquinamento dovrebbe tenere la bocca chiusa», afferma Veronica Coptis, del Center for Coalfield Justice.

Se a prima vista può sembrare inusuale che siano antropologi, e non ingegneri o geologi, a occuparsi di fratturazione idraulica, è forse perché siamo abituati a pensare che la forza della scienza e della tecnologia stia proprio nel restare quanto più possibile lontano dalla politica. Niente di più lontano dalla realtà, sembrano concordare gli esperti intervenuti alla conferenza. La tecnologia è politica e società, ma molti tecnici, educati a un’idea di scienza a-sociale, non sanno come comportarsi di fronte all’opposizione dei cittadini. Finiscono così per accusare chi protesta di scarsa cultura scientifica, o di voler difendere il proprio orticello senza comprendere i vantaggi della nuova risorsa per il paese. Assicurano poi, dati alla mano, che il fracking non comporta alcun rischio ambientale, se ben gestito. Queste accuse sono però semplicistiche, e le scienze sociali hanno già dimostrato da anni quanto non siano questi – o non soltanto questi – i motivi alla base della protesta.

«L’uso (o il non-uso) delle nuove tecnologie di estrazione di idrocarburi, infatti, è prima di tutto una questione sociale. Non riguarda soltanto l’ambito ristretto della sicurezza per l’ambiente e per la salute umana dei procedimenti impiegati ma, in senso più ampio, il modo in cui vogliamo venga usato l’ambiente in cui viviamo quotidianamente, e la nostra visione del futuro», spiega in un suo studio il sociologo Francis Chateauraynaud. Il gas, per quanto sia meno inquinante del carbone, è pur sempre un’energia fossile; a causa del suo basso costo, finanziare progetti di questo tipo porterebbe a un rinvio dell’espansione delle energie rinnovabili. E se c’è una cosa che i tanti summit ambientali mondiali ci hanno insegnato, è che non si può più rimandare la riduzione delle energie fossili, pena uno stravolgimento del clima terrestre. È per questo che dare in pasto agli attivisti cumuli di dati e percentuali non risolve neppure in minima parte il problema dell’accettazione di una tecnologia, nel momento in cui i cittadini sono regolarmente ignorati da decisioni prese a monte dalla classe politica e dai cosiddetti esperti.

In molti paesi d’Europa, i politici si sono barcamenati alla meno peggio dando di volta in volta ragione agli attivisti o alle compagnie gassifere, a seconda della convenienza. Le posizioni in Europa riflettono grosso modo quelle negli Stati Uniti: da una parte, i difensori dello sfruttamento del gas non convenzionale, in nome di una maggiore autonomia energetica dall’estero (Polonia, del Regno Unito); dall’altra gli oppositori, che hanno proibito l’uso del fracking (Francia e Bulgaria). Va da sé che in queste condizioni pensare a regole uniche a livello europeo diventa impossibile. Per evitare i mal di pancia di questo o quel Paese, l’UE ha così lasciato carta bianca nella gestione nazionale della problematica. Insomma, se n’è lavata le mani. Ma questa posizione non risolve né il problema micropolitico della mancata partecipazioni dei cittadini ai processi decisionali sull’uso del gas di scisto, né quello macropolitico dell’eventuale commercializzazione in Europa di un’energia fossile che non farebbe che aggravare il bilancio climatico del continente. Senza poi considerare i problemi che lo sfruttamento di un gas europeo causerebbe con i Paesi che oggi riforniscono l’Europa. In definitiva, il dibattito è ancora aperto: seguirlo sarà sicuramente interessante, ma ancor più interessante sarebbe precederlo, attuando a monte alcune tra le misure partecipative richieste a gran voce dai cittadini.

Credit foto: The Weekly Bull

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia

Crediti immagine: Garry Knight, Flickr

 

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