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Il barile di petrolio a 60 dollari cambia gli equilibri mondiali

Da cinque mesi, il prezzo dei petrolio è in picchiata e sembra destinato ad attestarsi sui 60 dollari al barile. Perché, cosa significa e che conseguenze ha?

 

 

Cominciamo dal perché: la domanda non è particolarmente sostenuta, sia per il rallentamento cinese, che per la perdurante crisi europea. Peraltro anche Stati Uniti, India e Brasile non registrano alcuna crescita apprezzabile della domanda, per cui è ovvio che il prezzo tenda a scendere, ma non si giustifica un capitombolo del 30% in meno da giugno. Ormai si parla dell’orizzonte di 60 dollari come di qualcosa di assai prossimo e destinato a durare quantomeno per tutto il 2015.

Nelle altre occasioni del genere, il cartello dei paesi produttori (l’Opec) ha reagito logicamente diminuendo la produzione, in modo da far risalire i prezzi, così come speravano accadesse, anche questa volta, Russi e Venezuelani, ma l’Arabia Saudita (massimo produttore mondiale), subito seguita dalle monarchie del Golfo, si è opposta, comunicando che non avrebbe tagliato di un barile la sua produzione ed avrebbe continuato a praticare i prezzi bassi di mercato. Per di più, alla posizione Saudita si sono allineati anche i libici (sfavorevoli ad una riduzione a causa della difficile situazione interna che ha già imposto una riduzione rispetto ai livelli pre 2011) e gli iraniani (che sperano in un accordo sul nucleare per giungere alla fine delle sanzioni e recuperare quote di mercato mondiale).

Per di più, occorre considerare che i paesi non Opec (come Usa, Messico, Indonesia, Norvegia ecc) sono spesso, per motivi diversi fra loro, ostili ad una riduzione della produzione. Di conseguenza, anche gli altri sono stati costretti a subire la tendenza per reggere la concorrenza saudita. In queste condizioni, infatti, un taglio della produzione degli altri sarebbe rapidamente compensato dall’offerta saudita, che strapperebbe loro importanti clienti.

Morale: il giorno dopo la riunione dell’Opec, il prezzo del petrolio scivolava di un ulteriore 10% secco in 24 ore. Ma perché i sauditi scelgono una linea apparentemente così “autolesionista”, dato che sono i primi a rimetterci per i mancati rincari? Non è una scelta con motivazioni economiche, o, per lo meno, non in termini immediati.

Partiamo da alcune considerazioni:

a- l’Arabia Saudita, al pari delle monarchie del Golfo, ha ingenti riserve finanziarie che gli consentono di reggere il gioco per un periodo decisamente prolungato.

b- il blocco saudita, con gli alleati (Kwait, Quatar, Emirati ) rappresenta circa il 18% della produzione mondiale, che sale ulteriormente se si considerano i momentanei alleati iraniani e libici, per cui è effettivamente in condizione di condizionare il mercato mondiale e, date le sue riserve, far fronte anche ad una contrazione della produzione di altri.

c- il momento è particolarmente favorevole ad una speculazione al ribasso, per la coincidenza con le sanzioni all’Urss e con le difficoltà finanziarie dei venezuelani che non possono permettersi di perdere clienti.

Fatte queste considerazioni, c’è una prima ragione economica, ma di lungo periodo: buttare fuori mercato concorrenti sgraditi, come la Russia, di cui i sauditi auspicano il crollo finanziario e, di conseguenza politico. Sgombrato il campo dai progetti degli aborriti gasdotti russi, si aprirebbe la strada per quelli che colleghino l’Europa al Golfo e questo avvierebbe stabilmente la dipendenza europea da quell’area.

In questo c’è non c’è solo un calcolo economico (anche se di lungo respiro) ma anche un calcolo politico: la dipendenza europea, indirettamente, muta i rapporti di forza a sfavore di Israele. Peraltro, nella posizione saudita si avverte anche l’influenza dell’alleato americano che ha nell’indebolimento della Russia il suo obiettivo strategico principale.

E, in effetti, la Russia (e con lei il Venezuela) sta iniziando a soffrire le sanzioni sia per i minori ricavi dall’esportazione dei suoi prodotti, sia perché l’”asso nella manica” di Putin (il “generale inverno” che dovrebbe mettere in ginocchio gli europei, costringendoli a mollare la presa) rischia di diventare una debole scartina con prezzi del petrolio tanto bassi. E il rublo vale sempre meno, tanto che neppure la Banca centrale fa nulla per sostenerlo sul mercato, preferendo non bruciare le riserve di valuta pregiata di cui dispone.

La speranza degli americani è che il crollo dell’economia russa spinga ad un complotto di palazzo che deponga Putin e porti al potere gente più “ragionevole”. E può anche darsi che la manovra riesca, ma il gruppo dirigente successivo si troverebbe subito in difficoltà, dato che “mollare” sulla questione ucraina non è così semplice, senza correre il rischio di perdere il consenso popolare. Sbaglia chi pensa che i russi tengano più alla stabilità della loro moneta che al prestigio del loro paese: Putin ha il consenso che ha perché i russi lo vedono come il Presidente che ha ridato l’orgoglio al paese ricollocandolo fra le maggiori potenze mondiali.

D’altro canto le difficoltà di Putin sono reali ed è facile immaginare che se trovasse una via d’uscita dignitosa dal pantano ucraino lo farebbe di corsa. Ma le conseguenze geopolitiche di questa “onda bassa” del petrolio non si limitano a questo ed occorrerà riparlarne ancora.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.115) 9 dicembre 2014 22:15

    Il prezzo del barile così basso rende meno economico lo shale gas così come tutte le "moderne" fonti di estrazione di idrocarburi.
    Settori in cui gli USA puntano molto.
    Diciamo che l’OPEC prende due piccioni con una fava, chissà se esiste l’equivalente proverbio arabo.
    Saluti

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