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Il Santo Vescovo e il Cristo Patiens l’arte che si svela nella storia di Cirò/Chone (KR)

Nella primigenia Chiesa matrice di Cirò (KR), Chiesa di S. Giovanni Battista, in seguito a dei lavori di ristrutturazione, è venuto alla luce un dipinto murale, la cui eccezionalità si configura nel particolare del medaglione centrale, contenente il Cristo Patiens.

È noto che il tema iconografico si sviluppò nell’Oriente bizantino, passando in Occidente in un secondo tempo, nel corso del XIII secolo. Un primo fattore di diffusione è da collegarsi alla presa di Costantinopoli avvenuta nel 1204, in seguito alla quale una quantità rilevante di icone e reliquie affluì nelle terre dei conquistatori. L’affresco rinvenuto, raffigurante un Santo Vescovo, attrae per specifici segni: è contraddistinto da un’aureola d’oro, con copricapo una bassa mitria; ha la mano destra in posa benedicente e la mano sinistra indicante un grande medaglione circolare, che ritrae, il Cristo Patiens. Emergono, dunque, tre segni: la mitria, il gesto benedicente nella mano destra, il medaglione con visibile il Cristo Patiens.

Circa la mitria, ciò che il dipinto raffigura è un Santo Vescovo, la storia narra che religiosi come gli abati, non avessero in uso la mitria, almeno fino alla seconda metà del XII secolo.

Altro elemento, il gesto benedicente della mano destra. Sappiamo che, a causa delle scissioni delle comunità cristiane, come quella dell’XI secolo tra la Chiesa d’Occidente e la Chiesa d’Oriente, gli artisti prestarono molta attenzione a rappresentare correttamente nelle loro opere anche le più piccole variazioni. La Chiesa romana optò per un segno di benedizione che prevedeva di tenere diritti verso l’alto il pollice, l’indice e il medio e piegare le altre dita sul palmo. Le tre dita tese corrispondono al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, la Trinità. La Chiesa ortodossa, invece, adottò un segno più complesso, in cui ogni dito era posizionato in un particolare modo per formare il monogramma IC XC, ovvero l’abbreviazione del nome greco Gesù Cristo. Pertanto, nel segno benedicente della mano destra, delle icone bizantine, il pollice della mano benedicente tocca o sfiora l’anulare, l’indice è alzato verso l’alto, il medio e il mignolo sono lievemente piegati. Così la mano del prete forma le lettere iniziali e finali delle parole «Gesù Cristo» in greco – «IC» e «XC» – sempre ricordando l’associazione delle tre Persone della Trinità e le due nature di Cristo. Ergo: nel Santo Vescovo raffigurato, il segno benedicente non è conforme al rito bizantino, dunque non di rito orientale, piuttosto afferente al rito latino, di Santa Romana Chiesa.

L’effigie del Cristo Patiens contentuta nel medagione centrale. Elemento più rappresentativo per straordinarietà, la mano sinistra del Santo Vescovo che indica lo splendido medaglione, con dipinto il Cristo Patiens. A riguardo, ci soffermiamo sulla dottrina della doppia natura, umana e divina di Cristo, affermata nei grandi concili di Nicea (325), Costantinopoli (381) ed Efeso (431). Essa fornisce il quadro per l’illustrazione della morte sulla croce del Figlio di Dio, fatto uomo per la redenzione dei peccati dell’umanità. La raffigurazione del Cristo inchiodato alla croce, in cui i Padri della Chiesa vedevano il simbolo dell’universalità della redenzione, diviene centrale nell’arte medievale. È risaputo che la raffigurazione del corpo morto di Cristo, estrapolato da qualsiasi contesto narrativo, si forma in ambito bizantino con la definizione di Somma Umiliazione (άκρα ταπείνωσις), ma lo sviluppo più significativo si ha in Occidente dove si parla di Cristo in Pietà o Imago Pietatis. Questa iconografia diventa di particolare attualità nel corso del quattrocento, quando si affermano alcuni movimenti spirituali che sostengono e predicano la necessità di vivere secondo l’esempio di Gesù, Sequela Christi. Effettivamente, il tipo iconografico della raffigurazione di Cristo morto, ritto nel sepolcro, a partire dalla seconda metà del 400, in Italia, iniziò ad essere frequentemente associato a quella particolare categoria di istituti noti come Monti di Pietà, e altri enti di tipo assistenziale. Alla principale ragione di questa connessione verso il prossimo, o pietas, era accostabile la virtù morale della misericordia, sentimento di compassione provato nei confronti degli altri, per via dei loro mali. La pietas è quindi affine alla carità, la principale tra le virtù teologali, ma viene distinta da essa per via della motivazione che spinge all’azione ovvero la compassione per la sofferenza del prossimo. In questo contesto, emerge il ruolo fondamentale della carità che, come indica s. Agostino: Amor Dei, amor proximi, Caritas dicitur. La virtù è quindi sostanziata da due elementi inseparabili, e l’oggetto principale dell’amore umano deve essere sempre Dio. Da questo sentimento nasce poi l’amor proximi, che altro non è che una conseguenza dell’amore per la divinità. Occorre, altresì, considerare, la differenza tra il Cristo Patiens, proprio della cultura occidentale, e il Christus Triumphans afferente alla cultura orientale, bizantina, come la storia dell’arte riporta.

L’iconografia del Christus triumphans nell’arte tra oriente e occidente. È noto che l’iconografia del Christus triumphans prevede il Cristo eretto, inchiodato alla croce, con gli occhi aperti, che mantiene uniti i due momenti essenziali del mistero salvifico pasquale: la morte e la resurrezione di Gesù. Alcune effigi mostrano Cristo eretto sulla croce con le mani spalancate nell’atteggiamento dell’orante e con gli occhi aperti, Christus crucifixus vigilans, segno della sua natura divina. In alcuni casi il Cristo triumphans è raffigurato su una croce di luce, secondo una consuetudine iconografica che unisce l’immagine del Cristo inchiodato sulla croce a quella del Redentore che torna nel giorno del Giudizio finale. Trova, poi, nell’arte ottoniana, una variante quale Cristo sommo sacerdote sulla croce, raffigurato in posizione eretta e vestito di una tunica, a mani aperte e inchiodato con quattro chiodi. Sul finire dell’VIII secolo Cristo può apparire su una croce d’oro decorata con perle e gemme preziose, Crux gemmata, per rievocare, oltre al sacrificio, la luce della parusía. A partire dall’XI secolo, tale tipologia si arricchisce agli estremi della croce con le immagini del tetramorfo, dal greco τετρα, tetra, quattro, e μορφη, morfé, forma, è una raffigurazione iconografica di origine orientale, frequente nell’arte bizantina, costituito dall’insieme dei simboli dei quattro Evangelisti: un uomo alato, S. Matteo, un leone, S. Marco, un toro (o vitello), S. Luca, e un’aquila, S. Giovanni. La tradizione iconografica si precisa, inoltre, attraverso interpretazioni che fanno capo all’abate Ruperto di Deutz, monaco benedettino, per il quale la croce è il simbolo della vittoria di Cristo, e dunque del sacerdotium, purché Cristo sia raffigurato privo di segni di sofferenza e secondo i canoni di una bellezza ideale. A partire dal XII secolo, quindi, la croce di tipo latino si amplia sia alle estremità per mezzo di tabelloni, sia ai lati del Cristo per ospitare scene dipinte della Passione.

La prima immagine del Cristo morto risale all’VIII secolo, come testimonia una tavola del Monte Sinai che raffigura Gesù col volto sereno e gli occhi chiusi. Ma è sul finire del XII e inizi del XIII secolo, che si comincia a sottolineare la sofferenza fisica di Cristo con l’iconografia del Christus patiens. Già con S. Anselmo d’Aosta si hanno i presupposti per una rappresentazione del Cristo crocifisso sofferente e morto, ma è soprattutto con S. Bernardo di Chiaravalle, fondatore dell’abbazia cistercense di Clairvaux, che il Cristo crocifisso diviene il punto di partenza della meditazione mistica. Bernardo vede nella vita di Cristo una via di dolore che conduce alla croce. Ecco che, la mistica della sofferenza e della croce diviene, soprattutto per opera dei Francescani, un momento centrale della riflessione cristiana. Promotori di una religiosità umanizzata, contraddistinta dalla componente emotiva, i Francescani ricorrono spesso a immagini che, attraverso un linguaggio emozionale, possano toccare, commuovere il fedele avvicinandolo alla Chiesa. Si fa risalire il primo esempio di croce monumentale con il Christus patiens a quella oggi conservata nel Museo di San Matteo a Pisa. Per l’espressione serena del volto, è stata avanzata l’ipotesi che si tratti di una variante iconografica del Christus dormiens, ovvero in attesa della resurrezione secondo la liturgia del Sabato santo. Con ogni probabilità sempre in ambito francescano nasce la variante, poi di notevole divulgazione, del Cristo inchiodato con soli tre chiodi, uno solo per i piedi fra loro sovrapposti. Il Cristo sofferente ha la testa reclinata sulla spalla e gli occhi chiusi, mentre il corpo si abbandona al peso della morte. Forse uno dei primi a recepire questa novità iconografica è Giunta Pisano e ne resta l’esempio del Crocifisso della Basilica di San Domenico a Bologna (1250), dove il corpo del Cristo è inarcato contro un tabellone privo di scene figurate. Il maggior naturalismo nella resa del Cristo porta ad abbandonare, poco alla volta, le scene tratte dalla vita ante e post mortem poste ai lati del corpo, sostituite in un primo momento da una trama simile a un tappeto, come proposto da Cimabue nel Crocifisso di Arezzo (1260-1265) e in quello di Santa Croce a Firenze (1270), infine eliminate fino a ricondurre la croce alla sola figura di Gesù. In questo senso si pongono le croci di Giotto, in cui il Christus patiens trova declinazioni sempre più realistiche, di grande impatto visivo ed emozionale. Ergo: l’iconografia del Christus triumphans, di derivazione bizantina, assumerà connotati diversi, e si evolverà in quella successiva, di genesi latina, del Christus Patiens. Ciò segnerà l’introduzione della manifestazione dei sentimenti nell’arte occidentale.

Un documento del 1769, dalla sottoscritta rinvenuto e analizzato, ha ancor più chiarito le improprie attribuzioni di nome al dipinto, ma occorrerebbe chiedere a coloro che hanno applicato targhetta quale algoritmo ha portato ad una attribuzione di nome, e perché in una direzione errata storicamente. L’inesattezza di attribuzione del nome è già implicita nei tre segni sopra esposti, viene confermata ulteriormente dai dati emersi da questo documento che tratta della natura di un Padronato di Cappellania laicale fondato dal fu Pietro Trusciglio di Cirò, sotto il Titolo di S. Cataldo a’ 25 Settembre dell’anno 1642.

Leggiamo: Vi fu nella Città di Cirò una Cappella col titolo di S. Cataldo, la quale abbandonata e non curata incominciò a rovinare; così che ne’ principi del secolo passato ritrovavasi già diruta.

Ergo: la Chiesetta di S. Cataldo, e culto al santo, esisteva già in Cirò, e Pietro Trusciglio, volle riedificarla. A Cirò, nel 1641, anno di richiesta del padronato della Chiesetta all’Ordinario, S. Nicodemo non era nemmeno conosciuto, mentre S. Cataldo, che è un Santo Vescovo, sì. È noto che il libro di Apollinare Agresta che tratta della Vita di San Nicodemo è del 1677, testo molto fantasioso che avanza l’ipotesi – risultata ampiamente errata – che a Cirò fosse nato S. Nicodemo. Se ne desume che, prima di questa data, 1677, la notizia che s. Nicodemo fosse cittadino di Cirò non era affatto conosciuta, tanto meno a Cirò in cui, e solo il 14 gennaio 1696 viene proclamato Patrono e Protettore di Cirò. Studi hanno acclarato che il luogo di origine di S. Nicodemo è Sikròs (RC) e che a Cirò non è mai venuto.

Viene dunque sconfessato quanto, inesattamente, ai danni anche della storia dell’arte, della storia del santo e cultura del territorio, è stato attribuito al dipinto presente nella Chiesa di San Giovanni Battista di Cirò. Difatti, il Santo Vescovo del dipinto non può essere identificato con il nome di S. Nicodemo abate. Risulta chiara la pertinenza rendendo assai risibile ogni forzatura. Cirò, la sua antica Chiesa matrice, S. Giovanni Battista, si arricchisce di un bene artistico, dai segni latini, un dipinto murale da visitare, di sicuro già prezioso per il territorio.

Cf. Maria Francesca Carnea, Il Santo Vescovo e il Cristo Patiens l’arte che si svela nella storia di Cirò/Chone (KR), in Academia.edu, 2023.

Cf. Maria Francesca Carnea, Il Santo Vescovo e il Cristo Patiens l’arte che si svela nella storia di Cirò/Chone KR, in ComunicativaViva YouTube, 2023.

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