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PD: il congresso è finito ancora prima di iniziare

Il congresso del PD è già concluso. Le linee politiche sono infatti già tracciate: leaderismo e pragmatismo.

Chiunque sarà il vincitore seguirà queste linee, che sottintendono posizioni precise sul partito, sull’economia, sulla morale e sulle istituzioni. In una siocietà videocratica il leaderismo conduce inevitabilmente alla formazione di un partito di opinione, subordinato al capo e quindi al Governo, di un partito fabbrica del consenso e con la conseguente morale annacquata, di una linea presidenzialista. Mentre il pragmatismo comporta l’adozione di una politica subordinata al capitale e quindi contraria ai lavoratori.

È mancato e manca un dibattito, un confronto dialettico, su questi temi. E se manca la ricerca del programma, si cerca un leader. D'Alema ne ha tracciato l’identikit: un mix Letta /Renzi,un soggetto con capacità comunicative e leaderistiche, ma anche profondo conoscitore della politica economica ed internazionale. Ma al PD non mancaun leader, di leader ne ha pure troppi.

Al PD gli manca un identikit che lo renda riconoscibile, un programma, una disciplina di partito. E questa carenza si è molto, troppo, avvertita in occasione delle elezioni del Presidente della Repubblica.

Anche il dissidio tra chi è per l'unificazione tra la carica di segretario e quella di leader, e chi è per la separazione, viene vissuto in chiave personalistica. I primi scontri tra i capicorrente parlano di persone, di posti di potere e non di contenuti. Ed invero, quando il confronto non avviene sul partito, sui suoi programmi, sui problemi della gente, sulle persone, ma sulla capacità di vincere del leader, si avvia un processo di trasformazione del partito, che porta inevitabilmente alla costruzione di un partito di opinione, e di una fabbrica del consenso.

È questo quello che si vuole? E questo quello che sa fare meglio il gruppo dirigente? Si vuole uno spazio politico e non un partito, una fabbrica del consenso, un movimento di opinione come quello berlusconiano, senza aver le capacita e i mezzi del cavaliere?

Ma per fare un movimento o un partito di opnione, ci vuole la comunicazione, e la comunicazione bisogna saperla fare, ed avere i soldi per farla. Se si vuole un partito di opinione, occorre avere un’organizzazione, disciplina e spirito di squadra. Ma di questo non si parla, non si discute.

È vero c’è una carenza di capacità comunicativa, ma ciò non giustifica la trasformazione del PD in partito di opinione, ne è sufficiente affidarsi ad un leader con capacità comunicative per risolvere il poblema. Il problema è la carenza cognitiva ed operativa della comunicazione. Ma quale comunicazione? Quella plagiante che modella cervelli e comportamenti, propria del PDL, o quella che promuove le capacità critica e raziocinate dell’uomo e l’intelligenza dell’uomo.

Il problema si risolve con una comunicazione coerente con il DNA del partito, con la sua storia. E la storia del PD, ci dice che la comunicazione serve per esaltare e sollecitare la coscienza e le capacità critiche delle persone. 

Ma un partito di opinione è compatibile con la storia e con la cultura del popolo del PD? Il leader di un partito di sinistra può essere un clone di Berlusconi? Un popolo abituato a discutere a riflettere a dibattere non accetterà mai un leader comunicatore, ma ignorante di politica economica ed internazionale. Il leader migliore per un partito è quello che meglio si addata alla natura di quel partito.

Esistono partiti che modellano il programma in funzione del leader, e partiti che scelgono il leader in funzione del programma. Un comunicatore, un produttore di consensi, è adatto per un partito di opinione, ma non per un partito radicato nel territorio, con un apparato ed un assetto organizzativo pesante. Per il PD, il leader migliore è quello che meglio interpreta e realizza il programma del partito.

Sul piano delle riforme istituzionali la chiave leaderistica, si traduce nell’adozione del presiedenzialismo. Ma il presidenzialismo, l'elezione diretta del popolo del Presidente della Repubblica, mette in contattto soggettin (gli elettori) con altri soggetti (la classe dirigente). L’alternativa è mettere in contatto al gente con l’attivita politica coinvolgendolanela definizione di proposte di mozioni, di in iziative politiche e nel controllo della loro realizzazione .

Quando la gente sceglie i propri governanti, la classe dirigente stabilisce con la politica un rapporto soggettivo, che viene esasperato quando la scelta prescinde dalle relazioni tra il soggetto e il programma politico che intende realizzare.

Quando la gente partecipa all’attività politica e controlla la sua realizzazione stabilisce con la politica un rapporto oggettivo. Un rapporto che è tenue quando il criterio di scelta è la sola competenza, la capacita realizzativa tecnica. È invece piu forte quando il criterio di scelta è la capacita realizzativa politica. Se si sceglie un medico per la sanità, un magistrato per la giustizia, la scelta opera in un quadro specialistico e ristretto dei settori su cui la politica incide.

Quando si individua la capacita realizzativa, come la capacita di cogliere le interralazioni tra i vari settori e di collocarle in un disegno strategico, allora la scelta opera in un qaudro politico. Insomma una cosa è la scelta concentrata sulla persona, altra cosa, è la scelta in funzione del programma da realizzare.

Niente di tutto questo è presente nel dibattito precongressuale: si fa rifermemto alla capacita di far voti in una visione che prescinde in maniera totale dai contenuti e dal rapprto tra in condidati e il programma. Nesuno chiede di essere eletto perché vuol riformare il sistema pensionistico in termini pereqautivi o perche vuol bandire le armi dai programmi di governo.

Sembra che tutti concordino sul pragmatismo e sul rifiuto delle ideologie. Ma la linea pragmatica non ha forse connotazioni ideologiche? Affrontare i problemi man mano che essi si presentano, al di fuori di un disegno strategico riferibile all’ideologia liberale o socialista individua una politica subordinata ai fatti e alle mutazioni economiche. E se le mutazioni economiche non le detrmina la politica, le determina il capitale. E allora la subordinazione delle politica diventa subordinazione al capitale, cioè una politica di destra.

Un partito ha il compito di realizzare un programma, di vincere le elezioni o entrambe le cose. Ma se il programma è subordinato al leader, vuol dire che il leader non viene scelto per la realizzazione del programma, ma per la vittoria elettorale. Ma questa concezione del partito come fabbrica del consenso ha riflessi anche sulla questione morale, giacché se l’obiettivo è la vittoria, tutto ciò che è ad essa funzionale, può andare bene, anche se si discosta da certi canoni morali o da certi paletti politici che costituiscono il DNA di quel partito.

E allora il leader è chi sa conquistare piu voti, colui che porta il partito al governo, ma in tutto ciò il rapporto con il cittadino e le sue esigenze scompare dalla scena.

E allora succede che mentre il Vescovo di Roma si occupa degli immigrati, quello di Nola degli operai della Fiat, la sinistra si occupa delle cariche del partito. E l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, gli esodati, i precari? Quali le soluzione per questi problemi? C’è un disegno ideologico in cui collocarle? No, i bisogni della gente possono attendere.

Ma come si è arrivati a trascurare le necessità della gente per cercare un leader? Come si è arrivati a sostituire all’ideologia il pragamtismo? Come è stato possibile che ciò sia potuto accadere in nel partito democratico, che può rivendicare nella sua storia una forte connotazione ideologica e una stretta conmnessione tra partito e bisogni del popolo?

Il fatto è che il PD ha risentito della crisi delle idelogie e della forma partito, questa crisi è stata esasperata dalla coesistenza tra le sue varie anime, che non è segnata da posizioni diverse e tuttavia compatibili, ma dalla compresenza degli opposti.

Non si confrontano diversi gradi della politica kenesiana, come è normale per un partito di sinistra, ma liberismo e Keynesismo. È la logica del “ma anche” veltroniano, del partito maggioritario. Un range di compatibilità tra idee diverse quando è illimitato, non individua un partito maggioritario. Un partito maggioritario non giustifica la coabitazione degli opposti, la compresenza nello stesso partito di destra e sinistra. Una forza politica siffatta non è un partito, ma uno spazio politico, una coalizione disordinata di tante anime e di tante correnti, dove ciascuno dice la sua.

Insomma un terreno fertile in cui puo nascere la mala pianta del leaderismo e del pragmatismo e con esse la trasformazione di un partito di sinistra in un partito di destra

 

Foto logo: Leonado d'Ottavi/Flickr

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