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I prestiti europei sono debito: la rivelazione che sconvolse una nazione

All'alba del 2021, in Italia abbiamo fatto una scoperta sconvolgente.

In attesa di capire come evolverà la vera e propria “crisi al buio” (siamo in pieno revival, quindi anche queste terminologie anni Settanta ci stanno a puntino) del governo Conte, i nostri eroi continuano a scannarsi in due fazioni, una più ottusa e propagandista dell’altra. Oltre alla modalità “aggiungi un posto a tavola” che ha rivitalizzato machiavellismi frustrati da lunghi anni di ristrettezze finanziarie, ora siamo al braccio di ferro sull’ennesima epifania: la realizzazione che, se una cosa si chiama “prestito”, significa -incredibile- che si tratta di debito, e che quindi va restituito. Ogni giorno ha il suo shock.

I termini della questione: i renziani esigono, tra le altre cose, che il nostro paese utilizzi tutti i prestiti previsti dal Recovery Fund. Il governo, e in particolare il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, si oppongono sostenendo che, così facendo si aumenterebbe il debito in modo incompatibile con quanto già scritto nei vari documenti di programmazione finanziaria.

Pare incredibile essere arrivati a questa data per leggere e ascoltare un dibattito di questo tipo, ma tant’è. Vediamo cosa abbiamo sul tavolo. In primo luogo, la circostanza che i fondi del Recovery vanno sborsati in un arco temporale piuttosto ristretto, entro il 2026, ma impegnati entro il 2023. Se la Commissione (e il Consiglio) dovesse modificare questo calendario le cose potrebbero variare, ma ad oggi questo è.

Poi, la nota attitudine italiana a spendere poco e male i fondi europei, che pure hanno dinamiche d’impiego e monitoraggio non identiche a quelli del Recovery, che sono vincolati in modo più stretto malgrado la politica qui da noi pensi il contrario, e di dover solo gestire una cornucopia di soldi che piovono “dall’Europa”, e che “abbiamo meritato”, non è chiaro il motivo.

Cosa il Recovery Fund non è

Il Recovery Fund non è puro sostegno della domanda, signori. Sono risorse a supporto di modifiche strutturali dell’economia, in senso di adeguamento e sviluppo tecnologico ma anche di riforme dal lato dell’offerta. In pochi hanno scordato che la facility (cioè la linea di fondi erogabili nell’ambito del piano) è

[…] strettamente allineata con le priorità della Commissione per assicurare nel lungo periodo una ripresa inclusiva e sostenibile che promuova le transizioni digitale e verde.

e che i piani nazionali di ripresa e resilienza

[…] dovrebbero efficacemente affrontare le sfide identificate nel Semestre europeo, in particolare nelle raccomandazioni specifiche al paese adottate dal Consiglio. I Piani dovrebbero anche includere misure per affrontare le sfide e cogliere i benefici delle transizioni digitale e verde.

Il tutto lungo quattro direttrici di crescita: sostenibilità ambientale, produttività, equità, stabilità macroeconomica.

Se il piano italiano risponderà a tutti questi requisiti, lo valuteranno le istituzioni europee. Per ora, prendiamo atto che la politica italiana è convinta di due cose: la prima, che ci stiano piovendo in testa soldi “a gratis”, non solo per i sussidi ma anche per i prestiti. In secondo luogo, che le raccomandazioni specifiche al paese, e quindi le condizionalità, possano in qualche modo essere negoziate e rese meno cogenti. Il che è teoricamente possibile, anche se occorre guardare alla reazione degli altri paesi di fronte ad uno scenario del genere.

In Italia, quantità è qualità

Come sempre, la politica pensa che quantità e qualità siano dimensioni fungibili. Prendete il caso del MES pandemico, la stucchevole vicenda che si trascina da mesi e che vede da un lato i sostenitori del no che affermano che si tratterebbe di un “Cavallo di Troika” per espugnare il nostro meraviglioso, ricco e invidiato paese. Scordando che, se il debito diventa non sostenibile sono guai, MES o meno.

Dall’altro, i “quantitativi” del sì, quelli che “abbiamo bisogno di una sanità di eccellenza (sic), quindi quei soldi ci servono tutti”. Ragionamento altrettanto se non più demenziale di quello del no, proprio perché convinto che bastino soldi, tanti soldi, per diventare “eccellenti”. Forse nel catturare risorse pubbliche: la pratica, come noto, rende perfetti.

Nel mezzo, c’è una cosa chiamata debito. Che è cresciuto in modo imponente e in larga misura inevitabile durante la pandemia, che balzerà ulteriormente quando scatterà la garanzia pubblica sui crediti concessi dalle banche divenuti nel frattempo inesigibili e che dovrà essere riportato su un sentiero meno problematico quando saremo tornati alla normalità. Ma che significa, “tornare alla normalità”? In primo luogo, che la Bce non interverrà più massicciamente per garantire indirettamente la collocabilità del debito. Poi, che le regole europee di equilibrio dei conti torneranno, sia pure in versione rivista.

Cosa sarà la normalità

Su tutto, “normalità” significa una e una sola cosa: un tasso di crescita del Pil nominale che eccede il costo medio del debito pubblico. Ciò che garantisce la progressiva riduzione dell’indebitamento. Se dovessimo prendere tutti i prestiti del NGEU (oltre 120 miliardi) sommandoli allo stock di debito in essere, correremmo il rischio di farci crollare il paese in testa?

No, dicono gli “additivi” del debito, perché quel debito finanzierà investimenti che si ripagheranno. Bello sarebbe, se solo fosse vero. Ennesima versione di quel leggendario moltiplicatore che, alle nostre latitudini, ripaga magicamente e con interessi il costo del nuovo debito. Negli ultimi decenni qualcosa è andato storto, in tal senso, ma non demordiamo.

Date le premesse e la storia di questo paese, usare tutti i fondi crea l'elevato rischio di precipitare il dissesto e la ristrutturazione del debito pubblico.Click to Tweet
L’unica guerra è quella contro noi stessi

Gli “additivi” ricorrono spesso a immagini di ricostruzione post-bellica per l’uso di tale debito comune. Peccato che vi sia una differenza, tra questa immagine e oggi: che i periodi post-bellici sono caratterizzati da basso debito iniziale, perché spazzato via da default e inflazione. Oggi questa situazione non è presente, per il momento. Quindi, il “foglio bianco” della ricostruzione post-bellica, oggi, non è tale. Il debito preesistente esiste e torreggia.

Che fare, quindi? In primo luogo, prendere atto che è altamente improbabile che gli altri paesi europei “tirino” tutti i prestiti. Se fossimo solo noi a farlo, data la condizione del paese in termini di indebitamento, vorrebbe dire una delle due cose: che siamo folli o terribilmente fiduciosi in noi stessi, che poi a volte è la stessa cosa. Occhio allo stigma, come sempre. Piantarla, una volta per sempre, con l’equivalenza italiana tra quantità di soldi pubblici e qualità degli esiti.

Usare dapprima i grants, cioè le sovvenzioni a fondo perduto ma comunque vincolate al piano di ripresa e resilienza: cioè agli obiettivi europei. Poi, usare i prestiti per sostituire l’indebitamento di mercato e finanziare programmi pluriennali di spesa in conto capitale, se compatibili con le direttrici dei fondi europei.

L’unica scommessa, che i bookmaker rifiutano di quotare, è che da noi politici e commentatori riprenderanno quanto prima a parlare di “austerità”, se solo mercati e istituzioni europee non ci lasceranno usare e tirare tutto il debito che reputiamo necessario, per reiterare che siamo un modello che il mondo invidia.

Foto di klimkin da Pixabay

Questo articolo è stato pubblicato qui

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