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I pilastri di Cosa Nostra: i siciliani nella zona grigia e la cultura mafiosa

Quando la ’cultura’ mafiosa diventa coscienza e mentalità collettiva, ecco descritta con amarezza la storia e il presente dei siciliani che vivono, chi più e chi meno, sottomessi ad un regime di sovrana paura.

La ’cultura’ mafiosa, paradigma di idee, ideali, principi, convinzioni, porta da sempre con sé l’ombra della mediocrità nelle prospettive e quel nauseante puzzo di compromesso morale che ammorba interi strati sociali, da quelli popolari a quelli elitari. La ’cultura’ mafiosa impone il suo modus vivendi nelle piccole cose, da un permesso di costruire, alla pretesa di un favore ingiusto, dall’accesso al credito, ad ogni altra attività sociale od economica. Queste quotidiane attività sono occasione per imporre limiti, ostacoli, dinieghi, impedimenti e in questo mare magno della burocrazia si annega, solidificato come ferro nel calcestruzzo, la zona grigia di connivenza con la cosiddetta vera "Mafia" siciliana, cioè l’organizzazione piramidale verticistica ad iniziazione esoterica denominata Cosa Nostra. La zona grigia è, insieme alla cultura mafiosa, colonna di sostegno di Cosa Nostra che ha annidamenti in tutte le strutture pubbliche o private di significativa rilevanza. Il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, definisce la zona grigia "come quella eterogenea fascia sociale, attraverso cui i mafiosi iniziati esotericamente a Cosa Nostra, presenziano il territorio, lo ascoltano, lo controllano, lo dirigono". Zona grigia che è fatta di medici, avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri, dirigenti amministrativi, politici.

Secondo le stime di Grasso, che è persona assai accreditata a "non dare di numero", la zona grigia è composta dal 10 % circa dei siciliani, tra coloro che ne sono coscienti, consenzienti spontaneamente o vittime di ricatto o minacce, o addirittura inconsapevoli pedine soggiacenti al politico o al notabile di turno. Alla luce di tali considerazioni, possiamo affermare che una parte di coloro che operano nella pubblica amministrazione siciliana è stata "sistemata" dalla mafia. La criminalità organizzata capace di fare saltare con il tritolo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di condizionare in Cassazione storici processi, di muovere miliardi e miliardi in operazioni lecite, avrebbe o non avrebbe avuto il potere anche di truccare concorsi, imporre assunzioni, determinare esiti più o meno favorevoli ai propri "protetti"? È ovviamente una domanda retorica perché sappiamo tutti che Cosa Nostra ha esercitato, e in alcune zone d’ombra lo fa ancora, un concreto potere direttivo di ogni singolo aspetto del vivere sociale, economico e politico. Negarlo significherebbe negare al contempo i successi che le persone libere stanno inanellando dall’arresto di Totò Riina sino a quello di Bernardo Provenzano. Una settimana prima di essere ammazzato dai killer del clan di Nitto Santapaola, Giuseppe Fava, finissimo intellettuale, avvertiva l’opinione pubblica nazionale che per sconfiggere la mafia occorreva cambiare registro innanzitutto circa la percezione di questa. La mafia, intesa come potere reale di coercizione e di dominio totale del territorio, non andava letta negli occhi di agricoltori, pescatori o pastori, ma andava cercata nei piani alti del potere politico ed economico. Ebbene, oggi raccogliendo il testimone da Fava, ho voluto riproporre identica l’antica questione. La nostra è una zona incolore e per questo domina in Sicilia il nero e le sue sfumature in un grigio via via più pallido per le proprie mediocri manifestazioni.

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