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I lati oscuri dell’empatia

Tutti, chi più chi meno, siamo in grado di provare empatia. Cosa decidiamo di fare di questo sentimento, tuttavia, viaggia su un binario parallelo, e non va sempre nella direzione del bene altrui. Ne parla Paolo Ferrarini sul n. 4/2021 della rivista Nessun Dogma.
 

Nel 2012 uscì The Impossible, la maggiore produzione hollywoodiana sull’apocalittico tsunami che a fine 2004 devastò molte regioni del sud-est asiatico e oltre. Uscendo da un cinema di Jakarta in compagnia di amici indonesiani dovetti ingoiare, insieme al “magone”, gli apprezzamenti che stavo per fare sul film, anticipato dai loro commenti stizziti: «Abbiamo avuto tre milioni tra morti, dispersi e sfollati, città distrutte, danni incalcolabili, e fanno un film su una famiglia di bianchi benestanti che alla fine, tutti salvi, se ne vanno su un jet privato».

Effettivamente, in quel film, il dramma della popolazione locale a malapena appare sullo sfondo: la storia è così insistentemente focalizzata sulla famiglia occidentale protagonista da far parlare qualcuno di un’opera fondamentalmente razzista. A Hollywood, dove la manipolazione dell’empatia si traduce in incassi, qualcuno deve aver deciso che rappresentare più onestamente una famiglia indonesiana o srilankese non avrebbe avuto lo stesso riscontro da parte del target pagante. Neppure la famiglia spagnola cui è ispirata la vicenda era abbastanza “bianca” a tali scopi: si è ritenuto opportuno “anglosassonizzare” i personaggi. Ecco servito un primo lato oscuro dell’empatia: l’empatia è tribale, perché si attiva in modo proporzionale alla nostra capacità di identificazione con un gruppo o una categoria: di più con gli amici, con i tifosi della nostra squadra, con i personaggi dagli occhi rotondi e grandi, con chi somiglia a un conoscente, con chi somiglia a noi per colore della pelle o status sociale, con chi soffre in modo acuto e ha speranza di riprendersi; di meno con chi sta permanentemente male, con chi ci ha fatto un dispetto, con le vittime che se la sono cercata, con chi è stigmatizzato dal nostro branco, con chi puzza e ha un aspetto trasandato, con chi è lontano da noi nel tempo e nello spazio, con le moltitudini.

Non è gratuito partire dal cinema, per una riflessione sull’empatia. Da un lato perché, sebbene sia un tratto psicologico noto fin dall’antichità e discusso da importanti pensatori come Adam Smith, la parola in uso oggi è stata coniata, nel 1909, per esprimere in inglese il concetto di Einfühlung, nato in ambito estetico per descrivere la risposta emotiva suscitata dagli oggetti d’arte; in secondo luogo perché, a differenza di quanto accade nella vita reale, dove le dinamiche che determinano il blocco o l’attivazione di questo meccanismo psicologico sono molto più complesse, la sala cinematografica funge da laboratorio in cui l’empatia può essere più chiaramente isolata, identificata e compresa. Nel buio di una sala ci sentiamo abbastanza al sicuro per immedesimarci senza conseguenze in altri personaggi e provare le loro paure, gioie, dolori, soddisfazioni, aiutati in questo dalla musica e dalle varie tecniche narrative e cinematografiche. È questa identificazione emotiva il significato più stretto di empatia, il proverbiale “mettersi nei panni di”, una parola altrimenti mal definita, che in seguito alla popolarizzazione e politicizzazione di alcune scoperte della psicologia e delle neuroscienze è diventato trendy usare in molti contesti, spesso anche a sproposito.

Nel senso proprio del termine, l’empatia ha dei limiti ben precisi. Basta trovarsi in aereo con un bimbo sofferente per constatarlo. Ma lo ha dimostrato anche J.M. Bergoglio, leader di un’organizzazione che promuove l’empatia oltre i limiti dello stucchevole, nell’esilarante episodio di inizio 2020 in cui all’entusiasmo di una fan ha risposto non con altrettanto entusiasmo, ma con violenza e irritazione. Il gioco, insomma, è bello finché dura poco. Può essere piacevole metterci nei panni altrui per la durata di un film, ma mantenere a lungo quella postura psicologica diventa stressante e comporta un gravoso dispendio di energie mentali, se non addirittura, come sosteneva per esempio Nietzsche, una perdita del sé. È il motivo per cui chi lavora a contatto con situazioni drammatiche (personale medico, psicologi, eccetera), deve formarsi anche nel controllo dell’empatia, imparando a disattivarla e a mantenere un’opportuna distanza per non prendere decisioni errate, ma soprattutto per non andare in burn-out. Chi invece segue regolarmente l’attualità rischia lo sfinimento da sovraesposizione mediatica, e quindi l’anestesia emotiva di fronte alle infinite tragedie incessantemente portate alla nostra attenzione. È impossibile quindi immedesimarsi in tutti, e tanto meno investire equamente il nostro limitato capitale emotivo. Al contrario, è molto più facile focalizzarci su uno o due individui, lasciando chiunque altro sullo sfondo, effetto ampiamente sfruttato dagli enti di beneficenza che tentano di persuadere potenziali donatori non presentando dati statistici sulle situazioni che intendono affrontare, ma pubblicizzando il volto di un singolo beneficiario, preferibilmente un bambino. Risparmio al lettore una nota citazione attribuita a Stalin, ma A.G. Bojaxhiu, da Calcutta avrebbe ripreso una volta lo stesso concetto affermando: «Se pensassi alle masse, non farei niente. È guardando una singola persona che decido di agire».

Il cinema ci dà un’altra lezione: l’empatia non è necessariamente collegata alla cura o all’agire morale. Il famoso e compianto critico Roger Ebert definiva il cinema «la più potente macchina dell’empatia nel mondo delle arti», e spesso valutava i film in base alla loro capacità di generarla, nella consapevolezza però che tutto ciò è fine a sé stesso, senza alcun trait d’union con il mondo reale. Per esempio, recensendo L’albero degli zoccoli scrisse: «La povertà suscita in noi un senso di devozione, soprattutto quando non ci tocca personalmente. Troviamo un nobilitante senso di dignità nelle vite della povera gente, specialmente quando è vissuta molto tempo fa, lontana da noi, e non avanza pretese sui nostri portafogli». Il fatto è che tutti, chi più chi meno, siamo in grado di provare empatia: come ci illustra il primatologo Frans de Waal, non è anzi neanche un attributo esclusivamente umano, essendone dotate molte specie animali. Cosa decidiamo di fare di questo sentimento, tuttavia, viaggia su un binario parallelo, e non va sempre nella direzione del bene altrui. Bulli e psicopatici sfruttano la loro intelligenza empatica per irretire e godere delle sofferenze inflitte alle loro vittime, un divulgatore la può usare semplicemente come artificio retorico, per esempio iniziando un articolo con un aneddoto personale. Ci sono poi aziende che, sfruttando le stesse tecniche persuasive degli enti di beneficenza, inducono a empatizzare con i loro fondatori, da Steve Jobs a Richard Branson, pubblicando appassionanti biografie allo scopo dichiarato di ispirare i lettori a seguirne l’esempio e magari arricchirsi: nell’attesa di diventare miliardari, gli ispirati lettori si fidelizzeranno ai prodotti dell’azienda.

L’empatia è correlata al narcisismo: allo stesso modo in cui è possibile empatizzare con personaggi fittizi, animali da compagnia e persino oggetti, è anche possibile reindirizzare l’empatia verso noi stessi. È ciò che accade nella fastidiosa narrazione «Dispiace per le sofferenze dei migranti, ma qua siamo messi male, non li possiamo accogliere», che ricorda da vicino le lagnanze degli aguzzini delle SS di cui parla Hannah Arendt: «Dispiace per gli ebrei, ma qua siamo messi male, abbiamo ordini orrendi da eseguire». Potenti politici si dipingono spesso come vittime (di censura, di persecuzione giudiziaria, di caccia alle streghe…) per attirare narcisisticamente l’empatia degli elettori che, altrettanto dispiaciuti per sé stessi, credono di trovare in quel leader un amplificatore delle proprie recriminazioni, qualcuno che li riconosce come vittime, per aver perso il lavoro o magari l’egemonia di maggioranza bianca e benestante. I narcisisti hanno particolare talento nel manipolare i sentimenti delle persone e ottenere il loro consenso, anche elettorale. Ma esistono anche casi di “empatia vampiristica”: genitori che vivono emotivamente attraverso i figli, spingendoli prepotentemente in certe direzioni allo scopo di provare insieme a loro certe soddisfazioni, come vittorie sportive o successi accademici. E quando non ottengono ciò che vogliono, generalmente non la prendono bene.

Già, perché l’empatia è una medaglia con due facce: investire emotivamente in un’altra persona genera in modo proporzionale risentimento quando questa persona non dimostra di esserci riconoscente, o se i risultati del nostro investimento non sono all’altezza delle aspettative. Quando poi si tratta di prendere le parti in un conflitto, il livello di empatia proiettato sulla vittima corrisponderà in egual misura all’odio e alla rabbia nei confronti del perpetratore. Questo aspetto è pieno di implicazioni. Il profondo dispiacere provato per le condizioni degli animali da laboratorio, tramutato in odio contro gli scienziati, può condurre ad azioni violente. Un approccio empatico alla giustizia, che amministra le punizioni non solo sulla base di principi razionali, ma anche nell’ottica di dare “soddisfazione” alle vittime, è ciò che rende tuttora popolare e legale la pena di morte negli Stati Uniti. È anche ciò che rende accettabile o giustificabile l’uso della violenza, dall’autodifesa armata in casa, agli interventi duri della polizia, fino alle azioni militari.

Daniel Batson ha rilevato, in un esperimento controllato, che l’empatia contraddice i principi di giustizia ed eguaglianza, inducendo alcuni partecipanti, invitati a mettersi nei panni di una piccola paziente, a prendere decisioni inique sul trattamento di altri bambini malati. Ma gli esempi concreti dei danni dell’empatia sono all’ordine del giorno. Vi siete mai mossi a compassione e dato qualche spicciolo ai bambini di strada in India? Beh, dietro ci possono essere organizzazioni criminali che li reclutano e in certi casi mutilano apposta allo scopo di sfruttarli. Più sovente, in altri paesi in via di sviluppo, sono le famiglie stesse a mandare i figli in strada anziché a scuola, per portare a casa uno stipendio extra. In Cambogia, alcuni orfanotrofi comprano bambini dalle famiglie per approfittare dei finanziamenti di benefattori dal cuore d’oro. L’empatia è quella cosa che ci porta a investire molto di più nella cura dei cani randagi che nei soccorsi alla popolazione dello Yemen, a spendere per realizzare l’ultimo desiderio di un bimbo morente l’equivalente necessario all’acquisto di reti antizanzare che salverebbero la vita a molti altri bambini in Africa. Reagire empaticamente ai bisogni effimeri dei figli, solo per strappare loro un sorriso o evitare di sentirli piangere, significa viziarli e abdicare al più sano ruolo di educatori. Tutte le volte che sentiamo chiedere, al cinema come nella vita reale: «Lei ha figli?», per implorare uno strappo alle regole, subordinando la cosa eticamente giusta da fare a un vergognoso atto di nepotismo, siamo in presenza di un invito alla sovversione basato sull’appello all’empatia. Nel nostro ambito associativo, per evitare di ferire i sentimenti della famiglia e della comunità, molti rimandano o rinunciano a sbattezzarsi, si sposano in chiesa, fanno seguire l’Irc ai figli, eccetera, contribuendo così a perpetuare il sistema di oppressione culturale che ben conosciamo.

Come argomenta eloquentemente lo psicologo Paul Bloom, con esempi analoghi a quelli presentati, l’empatia è quindi una pessima guida morale, in quanto specchio dei nostri peggiori bias e pregiudizi. Ma è davvero necessario essere, come suggerisce il provocatorio titolo del suo influente saggio, contro l’empatia? Non in senso assoluto. Essere più empatici significa per definizione vivere una vita più ricca di emozioni, apprezzare maggiormente l’arte, migliorare i rapporti personali, relazionarsi più serenamente sui posti di lavoro e nelle redazioni delle riviste. Uscire dal nostro individualismo e dalla morbosa introspezione cui ci ha abituati il predominante approccio alla psicoterapia per occuparci invece dei problemi degli altri potrebbe essere, come suggerisce il filosofo Peter Singer, una ricetta più sana per risolvere i nostri problemi di ansia e depressione. Curiosamente, l’empatia ci può assistere nell’imparare le lingue: i realizzatori della famosa app Duolingo sono arrivati a studiare in dettaglio quante lacrime il loro gufetto avatar debba versare nei messaggi di sollecito per spronare gli utenti a tornare a praticare lo spagnolo o il cinese. Più seriamente, Steven Pinker sostiene che l’empatia abbia avuto storicamente un ruolo importante nel progresso dei diritti umani e civili.

La domanda è: esiste, come iconicamente dichiarò Barak Obama, un deficit di empatia nelle nostre società? Sintonizzandosi sui programmi di notizie più seguiti in Italia, i cui palinsesti sono evidentemente studiati a tavolino non per informare ma per stimolare reazioni emotive, con servizi sproporzionatamente elaborati e musicati su vicende aneddotiche o di semplice cronaca, parrebbe di no. Il sospetto è che un incremento di empatia produrrebbe non un miglioramento della società, ma solo un numero maggiore di post di teneri gattini e cagnolini sugli stessi profili Facebook di gente che si compiace dell’annegamento dei migranti, infama Laura Boldrini e dà dell’assassina a chi accede all’aborto farmacologico. Obama poi non ha tenuto conto del fatto che nonostante l’empatia sia un tratto che accomuna trasversalmente i sostenitori di tutti i campi politici, è la destra populista che più di chiunque ha saputo sfruttarlo a proprio vantaggio, sostituendo con successo a ideali e programmi politici selfie con sorrisi smaglianti, sanguigni gossip da osteria, bavose molestie a santini della vergine, panini alla mortadella e tanta, tanta Nutella.

Un’obiezione rivolta alla critica di Paul Bloom è che quando la gente parla di “empatia”, non parla in realtà di empatia, ma di cose meno specifiche come compassione, cura, attenzione per l’altro, in generale di volersi bene. Il filosofo Jesse Prinz ritiene tra l’altro che l’empatia non figuri tra i principali sentimenti che hanno un ruolo determinante nel formare i nostri personali concetti di moralità. È difficile contraddire queste buone predisposizioni d’animo, e infatti Bloom non lo fa, dichiarandosi a favore dell’empatia, se è questo che l’interlocutore intende con il termine, fermo restando che ciò di cui probabilmente ha bisogno la società nell’ambito della riflessione morale è quella che lui definisce compassione razionale, ossia la cura per l’altro motivata non da sentimenti ma da principi razionali. Io però andrei oltre, sostenendo che un approccio alle scelte etiche che sia più razionale – empaticamente informato, certo, ma non empaticamente partecipato – sia preferibile a prescindere da qualsiasi tipo di logica “sentimentalista” concorrente. Se non siamo in grado di valutare e intervenire sulle grandi questioni in modo statistico, spassionato e lungimirante, dovremo sempre aspettare una Greta Thunberg per svegliarci sui pericoli del cambiamento climatico, voteremo sul nucleare o sull’uso delle cellule staminali sotto l’influsso di paure fomentate ad arte, doneremo con soddisfazione soldi a Telethon nello stesso momento in cui imbrogliamo su una cosa estremamente più importante e utile ma generatrice di sentimenti negativi come pagare le tasse, daremo l’otto per mille a chi ci persuade con pubblicità commoventi anziché a chi lo usa davvero per scopi socialmente utili.

Nessuno si fa illusioni (Jonathan Haidt docet) sul fatto che la nostra moralità sia guidata da inconsce motivazioni tribali e risponda a logiche spurie, emotive, contraddittorie e indifendibili, ma la razionalità rimane il migliore strumento a nostra disposizione per tentare di superare i pregiudizi e fare meglio di quanto ci suggerisca il puro istinto. Abdicare per eccesso di critica al pensiero razionale allineandosi a tendenze culturali che esaltano l’emotività significa in ultima analisi trovarsi nella posizione di non poter legittimamente criticare chi difende credenze soggettive («credo perché sento profondamente che è vero»), dalle fake news, alle teorie della cospirazione, alla moralistica pappa omogeneizzata che ai più viene somministrata da piccoli sotto forma di religione.

Paolo Ferrarini

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