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I commenti sulle pagine Facebook dei siti di news

Facebook è un fornitore di servizi. Le sue responsabilità sono regolate dalle “condizioni di utilizzo”, che trovate qui. Non è il caso di aprire un’altra volta la discussione generica e generale sui commenti on-line, sulla loro degenerazione, sui vari modi per affrontarli o non affrontarli

Se ne parla da tempo, in maniera molto approfondita, in molte prestigiose sedi. Qui volevo aprire una piccola parentesi riguardo a questo tema, focalizzando però l’attenzione solo su quella parte del problema che riguarda Facebook e le “pagine” dei siti di news che ci abitano all’interno.

Contrariamente a quanto può succedere tra le normali interazioni tra due utenti – dove nel caso qualcuno si sentisse offeso/minacciato/truffato, potrebbe segnalarlo con gli appositi strumenti – l’utilizzo “informativo” che si fa di Facebook è molto più complicato e difficile da gestire. I giornali on-line fanno ampio uso della piattaforma di Facebook per raggiungere i loro lettori. Allo stesso modo i lettori usano Facebook per raggiungere i contenuti che potrebbero interessare loro. Facebook in poche parole fa da intermediario. Il problema qual è?

Provate a farvi un giro sulle pagine Facebook dei giornali. Le quantità di insulti, razzismo, volgarità e pseudominacce, che albergano nei commenti delle più disparate notizie è davvero stupefacente. Non sto parlando di giornali di nicchia, magari con un background culturale e con un pubblico di un certo tipo. Sto parlando – con qualche rarissima eccezione – della totalità delle grandi testate giornalistiche, e dei più seguiti, e meno seguiti, siti di news. A chi dovrebbe andare la responsabilità di “moderazione” delle amenità che compaiono sotto i commenti alle notizie de Il Fatto Quotidiano (o di Libero, o del Corriere) su Facebook? La responsabilità è del giornale che gestisce la pagina o del fornitore del servizio? Io penso, forse ingenuamente, che la responsabilità sia, o dovrebbe essere, del gestore della pagina.

Lasciare in bella vista, senza porre rimedi, commenti violenti, livorosi e razzisti, ad esempio, legittimerà altri a scrivere commenti violenti, livorosi e razzisti. La virtualità del mezzo inibisce la capacità di moderazione che si potrebbe avere al bar, mentre si commenta una notizia con il tizio che ti sta facendo il cappuccino. La violenza da tastiera nella stragrande maggioranza dei casi rimane violenza da tastiera. Una forma anestetizzata e sciatta di indignazione acritica ma rumorosa. Quella sciatteria e quel rumore rimangono, ed innestano una dinamica che va a degradare un ambiente – quello di internet, e in questo caso particolare, di Facebook – che non è isolato dalla realtà, anzi, ne è una parte sempre più preminente.

Insultare e minacciare – anche se virtualmente – un politico, un giornalista, un ricercatore, uno scienziato, un giudice, un imprenditore, eccetera, è molto più semplice e beceramente appagante quando si ha a disposizione una vetrina come Facebook, e con essa e la possibilità di ricevere apprezzamenti sotto forma di “like”.

Si dirà che i mezzi per segnalare commenti offensivi/minacciosi/razzisti, siano dopotutto gli stessi che si possono usare per le normali interazioni tra i profili personali. Questo è vero in parte, perché trovare scritto su una pagina “altrui” qualcosa di violento, in qualche modo solleva la maggior parte delle persone dal prendere una posizione critica su quella violenza. E’ anche vero che molte notizie, e soprattutto il modo in cui vengono proposte al “popolo” di Facebook, sembrano fatte apposta per attirare, più che respingere, comportamenti di questo tipo. E questa è un’altra parte del problema.

Ciò non toglie che stiamo parlando comunque di una cosa, nei fatti, molto difficile da regolare. Come si può decidere arbitrariamente quali commenti sono effettivamente violenti/razzisti/offensivi e quali no? Quante risorse andrebbero allocate al limitare questo problema? Chi se ne dovrebbe prendere carico? Sono domande senza risposta per ora, e non so nemmeno se sono domande intelligenti.

La cosa più banale da auspicarsi riguarda le testate giornalistiche; invece che giocare ad alimentare questa sfacciata libertà del poter dire qualsiasi cosa senza conseguenze, dovrebbero mettersi in testa – e non è facile – che è possibile fare il loro mestiere anche in altro modo. Lo scopo del buon giornalismo non è solo quello di informare il proprio pubblico. Il buon giornalismo dovrebbe fornire gli strumenti adatti per comprendere le informazioni, la loro complessità, per farsi un’idea del mondo che vada oltre all’insulto su internet. Il buon giornalismo dovrebbe, insomma, educare, e non alimentare le rabbie, le frustrazioni, le miserie, l’incultura, che inevitabilmente emergono come più visibili, poiché irruente – rispetto alla moderazione, allo spirito critico, alla curiosità, alla risoluzione dei problemi – quando si ha a che fare con una moltitudine di individui. Sia ben chiaro che è un problema che non riguarda solo questo spicchio – seppur consistente – di internet; riguarda ogni medium, ed ha svariati effetti.

A mio modo di vedere le cose, risolvere questo nodo è essenziale, più che per questioni di principio – che eppure esistono, se si tiene ai modi della comunicazione e dell’informazione – perché l’interazione con gli utenti e con il proprio pubblico sarà, ed è già, un aspetto centrale per le strategie di successo di un’azienda che fa informazione.

Questo significa che per un giornale, il modo in cui si parla e si discute tra i suoi commenti, finirà per infierire – positivamente o negativamente – sull’immagine e sull’identità stessa della testata.

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