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Hotspot di Moria, il luogo dimenticato sull’orlo di un trauma collettivo

Hotspot di Moria, isola di Lesbo. E’ passato un anno da quando sono stata a Lesbo, isola meravigliosa, paradiso che nasconde un inferno. Mi ero recata lì, con il supporto di Medici Senza Frontiere, per documentare le condizioni di vita dei migranti approdati su questo scampolo di terra di fronte alla Turchia.

di Valentina Tamborra

L’inferno è il campo profughi di Moria: ex base militare riconvertita in centro di identificazione per i migranti che arrivano dal mare, su gommoni e bagnarole che dalla coste turche li portano direttamente qui, sulla costa nord di Lesbo. Il centro ad oggi ospita circa 6.000 persone, di cui quasi 2.000 sono minori.

Ho intervistato Alessandro Barberio, psichiatra dell’equipe del dipartimento di salute mentale di Trieste, da gennaio 2018 è sull’isola di Lesbo con Medici Senza Frontiere. “Ciò a cui stiamo assistendo” dice Alessandro “è un trauma collettivo che entrerà nella storia”. Si, perché a Moria aumentano sempre di più i casi psichiatrici. Le persone che sbarcano qui portano con sé storie di dolore, di abusi, di torture, di violenza, di fame. Arrivano già traumatizzate e le condizioni del campo peggiorano la situazione. Molti i casi di tentato suicidio, e non troppi mesi fa alcuni di essi attuati da bambini.

Oltre alle storie che ognuna delle persone porta con sé e che le hanno indotte a scappare dalla propria terra, ci sono le condizioni di vita a Moria. Un bagno ogni 50 persone, difficoltà di accesso alle prime cure, scarsa possibilità di accedere ai servizi di base del campo (la coda per ottenere la propria razione di cibo può durare ore), il freddo patito nelle piccole tende, rendono la sopravvivenza in questo luogo un’impresa ardua. Pochi giorni fa, fra l’altro, una di queste tende, la più grande sita nell’olive grove, terreno scosceso proprio adiacente all’hotspot, ha preso fuoco. Ci si scalda come si può a Moria: bruciando plastica, pezzi di legno, cartone, carta – va da sé che l’accensione di fuochi improvvisati può causare incendi. Per fortuna nessuna vittima, ma avrebbe potuto andare molto peggio, giacché nel tendone trovavano posto circa 100 persone (un letto per ciascuno, divisi fra loro solo da una coperta di lana grezza che funge da “tenda”).

Ma cosa si intende per trauma collettivo e che cosa lo provoca? I sintomi che i pazienti mostrano sono allucinazioni visive e uditive, paura, angoscia, confusione, disorganizzazione, disorientamento nel tempo e nello spazio. La terapia riesce a mitigare questi sintomi, ma ogni cura dovrebbe essere protratta nel tempo perché sia realmente efficace e spesso questo risulta impossibile. Le persone infatti vengono spostate su altri centri (ad Atene o dintorni, a Volvi o a Katsikas, al confine con l’Albania), spesso con un preavviso di un giorno soltanto. Questo rende difficile, se non impossibile, il proseguire delle cure. Lo spostamento in altri centri però, è solo un muovere il problema da un campo ad un altro, un po’ come nascondere la polvere sotto al tappeto: il fatto di portare le persone altrove infatti non garantisce una migliore assistenza legale e sociale. Le interviste per le richieste d’asilo procedono con lentezza esasperante. Basti pensare al caso di Parathi alias “Maradona”, proveniente dallo Sri Lanka, rimasto bloccato a Moria per 24 mesi prima di essere finalmente intervistato per la richiesta d’asilo e poi trasferito.

“Di questo passo”, dice sempre Alessandro “il malessere contaminerà tutti e diventerà sempre più grande. Crescendo il numero di persone afflitte da depressione, attacchi di panico, psicosi, aumenterà anche la pressione sociale, nonché la pressione sul sistema sanitario che già barcolla. Medici, infermieri e assistenti faticano a colmare i bisogni semplici e complessi di queste persone… andando avanti in questo modo sarà difficilissimo offrire cure adeguate e questo influirà anche sugli stessi addetti ai lavori. Stiamo assistendo a un ottundimento generale dei sensi: reazioni di diniego, rifiuto, razzismo, rigetto, appiattimento emotivo e sociale sono sempre più frequenti”.

L’hotspot di Moria è a tutti gli effetti un limbo: nonostante la dichiarazione di crisi umanitaria da parte di Medici Senza Frontiere, le autorità statali non si sono mosse. Medici Senza Frontiere, che sta tentando di creare una rete di supporto con le realtà locali, nonché di avviare un’attività congiunta con l’ospedale di Mitilene, capitale dell’isola, resterà sicuramente per tutto il 2019 . Ma fino a quando l’Europa, che si fonda sul rispetto di alcuni valori fondamentali quali la democrazia, lo Stato di Diritto e i diritti umani, non prenderà una posizione netta circa la situazione di Moria e delle altre isole greche, tutto il resto potranno essere soltanto soluzioni tampone. Intanto, sull’isola di Lesbo, l’inverno è particolarmente rigido: pioggia, vento, freddo pungente mettono a dura prova la sopravvivenza delle quasi 6.000 persone che qui restano in attesa di sapere cosa sarà di loro. Pochi giorni fa è morto un ragazzo, forse per cause riconducibili al freddo. Non si muore solo in mare – si muore anche quando la salvezza sembra ormai a portata di mano. Sta accadendo ora, qui nella nostra Europa. Non possiamo chiudere gli occhi.

Le foto sono tratte dal progetto “LA SOTTILE LINEA ROSSA” di Valentina Tamborra, in collaborazione con Medici Senza Frontiere

Questo articolo è stato pubblicato qui

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