• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

Home page > Tempo Libero > Cinema > Holy Motors, un film che annuncia due morti

Holy Motors, un film che annuncia due morti

Holy Motors, questo il titolo del film di chiusura della dodicesima edizione del “Trieste Science-Fiction”, festival della fantascienza organizzato da la Cappella Underground.

Quale scelta migliore se non quella di questo capolavoro, sceneggiato e diretto da Leos Carax, definito da molti il vincitore morale del festival di Cannes 2012 e vincitore al festival di Torino del “Mouse d'Oro” dei collaboratori dei siti di cinema raggiungendo il plebiscitario 9,29 per cento di gradimento, poteva far calare il sipario su un festival con un ampio cartellone di anteprime nei generi science fiction, fantasy e horror.

Holy Motors, un susseguirsi di immagini che sono un elogio al cinema agonizzante e una dura critica allo spettatore apatico di questo ultimo millennio. Non a caso il film si apre con un'inquadratura sorprendente che esprime tutta la genialità del regista, un fermo immagine di noi spettatori che come riflessi da uno specchio ci ritroviamo faccia a faccia con noi stessi – meglio, con un perturbante riflesso di noi stessi ripresi attraverso la membrana di uno schermo cinematografico.

L'immagine che lo spettatore si trova ad osservare è infatti una sala cinematografica buia, colma di gente dormiente, statica, con gli occhi chiusi, non-spettatori fermi e immobili di fronte alla proiezione di una primissima forma di ripresa cinematografica, le immagini di corpi in movimento catturate su pellicola dal fisiologo francese Etienne-Jules Marey alla fine dell’Ottocento. Lo spettatore viene messo di fronte ad un suo alter-ego in celluloide per poi essere catapultato d'improvviso in una onirica camera da letto.

In questa stanza un uomo si sta svegliando. Quell'uomo è Leos Carax stesso, che uscendo dalla camera passa attraverso una porta invisibile che il regista ha ricavato inserendo un insolita chiave in una strana serratura nel muro ricoperto da carta da parati raffigurante dei grossi alberi.

Attraversata la porta l’uomo si ritrova nella stessa sala cinematografica dell'inquadratura precedente, quella dove gli spettatori inermi non guardano. Il regista, allora, osserva la sala dall'alto, da dove di solito è posizionato il proiettore, e volge lo sguardo in basso dove in lontananza si vede una figura – un bambino o un nano – attraversare la sala. Subito dopo questo personaggio si vede in primo piano un mastino napoletano che percorre lentamente la sala in tutta la sua lunghezza passando tra gli spettatori che come statue occupano le poltrone. Il regista con quelle immagini sembra parlare metaforicamente di se stesso e del suo mondo: il cinema, grazie al quale è realizzabile un possibile "reincanto del mondo" attraverso l’immaginario.

Il film prosegue e a riempire lo schermo è la vita di un imprenditore – Monsieur Oscar (Denis Lavant) – che sale, salutando moglie e figlie, sulla propria limousine, dove è pronta l'autista Cèline (Edith Scob) che gli ricorda gli appuntamenti della giornata, accolti da Monsieur Oscar con rassegnazione.

Ma chi è veramente Monsieur Oscar? All'interno della sua limousine bianca vediamo apparire scena dopo scena tutto quello che è possibile trovare in un camerino teatrale, i fantastici e magici attrezzi di un attore dal volto stanco interpretato da un camaleontico Denis Lavant che si riflette, passando da una maschera ad un'altra, classico specchio da trucco con la cornice di lampadine.

Il protagonista entra ed esce da questo camerino ambulante che lo porta per le strade di Parigi dove metterà in scena sempre nuovi e differenti personaggi. Monsieur Oscar è dapprima una vecchia mendicante poi un assassino, un vecchio sul letto di morte, un padre di famiglia e persino un mostro, monsieur Merd (già presente in un episodio del film corale Tokio), molto simile ad un folletto irriverente disposto a passare su tutto pur di rapire una statuaria Eva Mendes dall'imperscrutabile figura che viene portata dall'insolito personaggio nella sua tana, nelle fogne parigine.

Già solo le scene dedicate da Carax a questo personaggio varrebbero più di un premio, l'Hobbit trash a confronto con la bellezza giunonica della Mendez richiama, come ci ricorda lo stesso regista un immagine degna della grande Diane Harbus.

Riformuliamo a questo punto la domanda precedente: Chi è monsieur Oscar? È un attore, che vive in un mondo che si è trasformato in un set cinematografico dove non esistono più vite reali, dove le telecamere sembrano essere ovunque. Il regista attraverso i mille volti del protagonista ci porta lungo tutti i possibili generi cinematografici: passa dal grottesco al film musicale, in una scena dove il protagonista suona una mazurka francese, dal dramma familiare al musical, e allo stesso tempo ci porta per mano in un mondo dove il "motore dell'azione" sembra sempre meno importante, dove l'immortalità non la si cerca più attraverso le vite proiettate su uno schermo, che con magia ci fanno sentire uno e molti, ma cercando di essere attori nella vita, tentando di rivivere interpretando milioni di parti ogni giorno, ruoli che ci conducono verso una dimensione da "uno nessuno e centomila".

Un intreccio di metafore geniali che solo l'occhio può cogliere e che meglio possono essere comprese con il sottofondo malinconico della colonna sonora scritta dal cantautore Gerard Manset e intitolata Revivre.

Sullo schermo è proiettata una pellicola metacinematografica che con i suoi precisi elementi stilistici come i fermo immagine, l'utilizzo dell'irreale, lo svelare i trucchi del mestiere, ci parla dal di dentro come in un'autoanalisi di un'arte: il cinema che lentamente collassa su se stesso. Diversamente dalla trasparenza tipica del cinema classico Leos Carax mette in scena l'arte cinematografica con le sue piaghe rivelando tutto ciò che gli altri film nascondono accuratamente.

Sembra che nelle immagini a cui ci sottopone il regista possa essere letta quella preoccupazione che affliggeva Jean Baudrillard, una società fatta di immagini, una società in cui l'irreale e il simulato dominano, finisce per ingurgitare i propri frutti. La fantasia muore nella simulazione, e così il cinema muore schiacciato dalla sua stessa madre generatrice: l'immaginazione. Si sta assistendo ad un'iperrealtà in cui non c'è più spazio per il cinema, dove si propaga la finzione più spregiudicata che rende gli uomini incapaci di vivere realmente e definire un unico soggetto di mille sfaccettature conscio di se stesso, ma si delinea sempre più la figura vuota di un manichino, immagine che ricorre spesso all'interno del film, adattabile a mille occasioni che non riesce più a sfruttare l'unicità della vita, percependosi a torto come un film classico: Immortale.

Così l'uomo incapace di scernere la realtà dalla finzione vive tante vite in veste di attore nella speranza di un'immortalità che non avrà mai, così come uno zombie dalle mille facce sopravvive non riuscendo più a trarre forza dai prodotti dell'immaginazione, non è più capace di rivivere attraverso una pellicola cinematografica, e per questo sembra destinato a sparire senza essere mai veramente nato come uomo, come sistema dai confini ben delimitati se pur permeabili.

Carax mette in scena con maestria la morte del cinema, che viene fuori quando Denis Lavant interpreta mensieur Merd e nelle fogne vediamo apparire un'immagine che richiama il sepolcro di Cristo, lo stravagante soggetto a cui il regista ha dato vita strappa l'abito ad un'impassibile Mendez che sembra priva di vita, solo un perfetto involucro, e le crea un burqa. La scena continua con monsieur Merd che nudo muore in sonno sulle ginocchia della modella. Carax fa morire il cinema come incanto e noi come realtà. Il regista scuote noi spettatori nel nostro ruolo di redentori di noi stessi e del cinema.

di Concetta Panarello

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares