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Ho fatto un sogno

Ho sognato che il disegno di legge sulle intercettazioni veniva ritirato. Che dopo i rilievi del Quirinale, dopo le proteste dei giornalisti e della società civile, dopo la lotta parlamentare dell’opposizione e anche di pezzi della maggioranza, il governo alzava bandiera bianca e si dichiarava sconfitto. Ho sognato i titoli degli editoriali di Angelo Panebianco sul Corriere (“Un doveroso plauso alla responsabilità del governo”), di Vittorio Feltri sul Giornale (“Questi ci hanno fottuto ancora una volta”), di Marco Travaglio sul Fatto (“E ora fatevi processare!”), di Ezio Mauro su Repubblica (“Peccato, ora dobbiamo levare i post-it gialli dalla prima pagina”), di Maurizio Belpietro su Libero (“Al Pd non piace la privacy e la figa”).

Ho sognato che i poliziotti potevano continuare a piazzare le cimici dove era necessario piazzarle, e che i magistrati continuavano a convalidare i fermi di spacciatori, rapinatori e camorristi, truffatori e mafiosi, violentatori e assassini. E poi ho sognato una riunione di redazione di un grande giornale, i tavoli ingombri di fogli e di pc portatili, i cronisti in maniche di camicia e i caffè nei bicchierini di plastica. Ho sognato che il cronista della giudiziaria spiegava al vice-direttore i particolari di una indagine di cui il cronista possedeva le prime sbobinature di una intercettazione ambientale; ho sognato che il vice-direttore cominciava a sfogliare il faldone, staccandone a uno a uno i fogli. “Questo no…questo no… questo no…”, accumulando carta su carta. Ho sognato che alla fine tra le mani gli restava solo un foglietto secco, in cui l’indagato ammetteva di aver corrotto un funzionario pubblico con una mazzetta, e ho sognato che di tutto il resto – le abitudini sessuali, la frequenza delle telefonate con il trans Barbara, il contenuto di certi sms un po’ piccanti che si scambiava con una 20enne amica di sua figlia – il vice-direttore faceva carta straccia.
 
Ho sognato che il vice-direttore spiegava al cronista che in fondo non è mica necessario imporre una regola restrittiva, anzi una legge con tanto di pesanti sanzioni, per gestire una autoregolamentazione etica. Che sì, in passato in quella stessa redazione erano stati scritti articoli ai limiti dell’abominevole; che si erano pubblicati pezzi in cui la dignità delle persone coinvolte in una indagine (e non ancora condannate con sentenza di un tribunale della Repubblica) veniva sbranata; in cui quelle stesse persone, poi assolte perché del tutto estranee ai fatti, continuavano a pagare l’orribile pubblicità loro malgrado ricevuta mesi o anni prima; e che anzi, forse ora, con lo scampato pericolo di una legge pericolosa, fatta a uso e consumo dell’estensore di quella medesima legge, ora che il peggio era alle spalle, forse si poteva pubblicare una prima pagina bianca, sì, ancora una volta, una seconda volta, una prima pagina tutta bianca con un post-it giallo, al centro, e sopra quel post-it al centro della prima pagina tutta bianca la scritta: “Scusate. In passato spesso e volentieri abbiamo fatto veramente schifo. Chiediamo perdono agli interessati e ai lettori. Ora che abbiamo capito, vi promettiamo che i codici etici del giornalista non saranno più solo belle parole vuote da dire ai giovani praticanti nei master di giornalismo”.

Poi mi sono svegliato. Erano le 13,30 del pomeriggio. Ho acceso la televisione. Il Tg1 titolava in apertura: “L’ultima profezia del polpo Paul: con le patate”.

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