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Guinea Equatoriale: “gli albini venuti dal mare” soffocarono cultura e tradizioni

 

 

Un coriandolo sulla mappa del globo, una piccola lingua di terra che si getta nell’Atlantico proprio sul cuore dell’equatore. La minuscola repubblica di Guinea Equatoriale, formata da un fazzoletto di terraferma tra il Gabon e il Camerun e un piccolo arcipelago di 5 isole che ospitano la capitale Malabo, è l’unico paese africano in cui i circa 600.000 abitanti sono di lingua spagnola, se si eccettua la sottile striscia di terra saharawi nel Sahara occidentale.

La storia della sua occupazione risale alla fine del ’400; ma è a metà del XVII secolo che alcuni anonimi preti spagnoli ricevono l’incarico di fondare la prima missione cattolica sull’isola di Bioko, allora chiamata Fernando Poo, per iniziare un sistematico processo di colonizzazione.

Isola di Fernando Poo

Allo sbaraglio, completamente privi di qualsiasi rudimentale conoscenza del luogo, degli abitanti e dei loro costumi, senza il minimo piano né strategia evangelizzatrice, il vero scopo di chi li aveva mandati era l’esplorazione del Golfo di Guinea e dei potenziali benefici economici che si potevano trarre dallo sfruttamento di quei possedimenti sconosciuti e quasi dimenticati fino ad allora.

Nel momento storico in cui tutte le Cancellerie europee si arrogavano il diritto di spartizione dell’Africa, l’impostazione coloniale spagnola si stabilizzò sull’asse stato-missione, dove quest’ultima funse da apripista all’economia spagnola per l’approvvigionamento di materie prime a basso costo. In questo senso vennero anche imposte agli autoctoni produzioni nuove con l’aiuto dei fernandinos, gli schiavi affrancati, che insegnarono ai locali la coltivazione di prodotti prima mai visti in Guinea, come il cacao, che potevano approvvigionare il mercato europeo con notevole risparmio sulla mano d’opera.

Inizia così l’irreversibile e sistematico processo di smantellamento di una cultura tradizionale che andrà lentamente all’agonia, portando con sé tutto quel microcosmo vitale che era stato per secoli il riferimento ideale delle popolazioni equatoguineane.

I missionari si rimboccarono le maniche e cominciarono impartendo i primi rudimenti del catechismo cattolico, cioè battezzando folle ignare e inculcando nelle menti che l’unico Dio da venerare era il Cristo occidentale. Poi arrivarono divieti e obblighi, a dir poco anacronistici per le popolazioni indigene, intimorite e diffidenti di fronte a quegli strani riti esoterici: proviamo per un attimo a pensare cosa doveva significare per loro, abituati alla solarità di riti di ringraziamento cantati e ballati in naturale nudità, il dover assistere in silenzio a lunghe messe celebrate in latino.

Diverse generazioni vissero nella più totale babele religiosa, un'improbabile e spersonalizzante amalgama di animismo-cattolicesimo, ben rappresentato da Donato Ndongo Bidyogo nel suo romanzo Il metrò, dove l’autore tratteggia magistralmente le reazioni di personaggi in forte emergenza emotiva.

Viene istintivo sorridere e poi riflettere, di fronte a una delle tante immagini riportate fedelmente dalla realtà: quella di un arrivato capo di stato nero che, in preda al terrore di essere stato contagiato dall’Aids, rivolge accorate preghiere simultanee tanto alla Beata Vergine Madre del Santissimo Sacramento quanto alla mandibola del teschio dell’antenato portata sempre con sé, per precauzione, in un vano della ventiquattr’ore insieme al rosario. Nell’indecisione di quale fosse la verità, meglio non fare torti e accordare fiducia a tutte le entità magiche, quelle tradizionali e quelle indotte.

L‘imposizione della monogamia, altro istituto lontano anni luce dalla cultura tradizionale africana, incrementò l’adulterio e il concubinaggio. Anche in questo caso bene viene reso lo spaesamento di fronte a tali imposizioni ne Il metrò, che accompagna il lettore nei pensieri di una giovane contadina: mentre ricava il proprio cibo da un piccolo appezzamento strappato alla selva, si chiede perché mai il Dio portato dai bianchi e presentato come Dio d’amore, dovrebbe disgustarsi dell’amore stesso, quello carnale, cui aveva egli stesso predisposto le sue creature. Immagine d’effetto, sintomatica di una lontananza concettuale, rimasta per molti secoli incolmata, verso tutte quelle etichette che i bianchi volevano per forza appiccicare all’amore.

Presto gli “albini venuti dal mare” esigettero che la popolazione distruggesse i propri templi - anfratti custoditi nella giungla da una natura prorompente – e venissero sacrificate al Cristo le reliquie sacre in essi conservate: le ossa degli antenati. Per non distruggerle molti le portarono a casa, nel proprio spazio vitale, trasformando il culto, sacro ma segreto, in una dimensione privatizzata dove ognuno poteva pregare i propri Dei in qualunque momento e forma, oltre che per qualunque fine. Nasce così, secondo alcune fonti, la famosa stregoneria africana nei suoi molteplici aspetti di magia bianca e di sacrificio umano legato alla magia nera, culto della tenebra che prima non esisteva.

In Guinea Equatoriale il colonialismo non fu cruento e sanguinoso come invece avvenne in altre parti dell’Africa, basti pensare all’efferatezza belga in Congo; fu piuttosto un assoggettamento psicologico, lento e inesorabile, che radicò ferite profonde e insinuanti nell’autodeterminazione culturale di un popolo per intere generazioni.

Il guineano doveva cedere il passo se incontrava un prete europeo e non poteva sfiorarne la lunga veste, per rispetto al superiore; doveva abbracciare riti esteriori senza neppure poterli comprendere, perchè erano superiori; doveva abbandonare le proprie credenze nella medicina tradizionale e nel potere dei guaritori locali, i segreti delle cui erbe si tramandavano da generazioni; doveva cessare di guardare come un faro alla figura dell’anziano che da tradizione millenaria era depositario di verità e saggezza per tutto il clan.

Ancora oggi gli effetti di quella spersonalizzazione imposta dall’esterno condizionano la concezione del sé individuale e collettivo, adeguato solo in quanto aderente ai canoni dello status occidentale: molte donne, ad esempio, ancora stirano i capelli, altre usano creme per schiarire la pelle troppo nera, mentre ad un buon numero di bambini viene ancora proibito di parlare la lingua materna.

Molti, tra gli equatoguineani acculturati, hanno compreso che diversi aspetti della cultura occidentale hanno portato incontestabili miglioramenti nella qualità della vita, da quella spicciola di tutti i giorni ai momenti più decisivi del vivere quotidiano. Dall’igiene alla medicina, dagli utensili di cucina alla biancheria, dalla radio alla lingua spagnola stessa che, quando usata come strumento, ha generato emancipazione e possibilità di comunicare con l’esterno.

Ciò che gli stessi intellettuali equatoguineani non accettano, è stata l’imposizione. Ogni valore non raggiunto in piena consapevolezza né condiviso con i fratelli nel percorso di conquista, ma inflitto con le armi o con l’arroganza della presunzione, lascia inevitabilmente il marchio dell’inferiorità in chi lo riceve. E la passività che ne deriva può talvolta generare mostri. Com’è accaduto proprio in quella terra.

 

Fonti:

HISPANIA NOVA. Revista de Historia Contemporánea – Miquel VILARÓ I GÜELL

“Cuadernos de Historia Contemporanea” – Mariano L. de Castro Antolín

La sacralización del espacio como argumento de colonización: el nuevo modelo misionero en Guinea Ecuatorial” – Jacint Creus

EFECTOS COLATERALES DEL COLONIALISMO EN GUINEA ECUATORIAL – María Nsue Angüe

“Il metrò″ - Donato Ndongo Bidyogo

 

Di Valeria Magnani

 

 

 

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