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Gli intellettuali precari visti da qui

di Sara De Balsi
È il 2001 quando in Francia esce Les intellos précaires di Anne e Marine Rambach. Fondatrici di una piccola casa editrice indipendente, autrici di romanzi e correttrici di bozze a contratto per diverse case editrici, nonché militanti per la causa omosessuale, nella loro inchiesta – che parte da un esilarante autoritratto professionale – coniano la definizione di “Intellettuale precario”, in cui immediatamente si riconosce un’intera categoria sociale ancora priva di etichetta. Nel 2009 esce Les nouveaux intellos précaires, seconda “puntata” dell’inchiesta, ampliata e aggiornata in base alle novità del nuovo decennio (l’euro, il governo Sarkozy, la crisi economica, per citare solo le più vistose).
 
Se l’inchiesta del 2001 mirava a definire una classe ancora senza nome, quella del 2009 va piuttosto in cerca delle ragioni per le quali questo gruppo, ormai – anche grazie al libro – autoconsapevole, non riesce a muoversi, ad organizzarsi, a trovare strade per uscire da una condizione che è quella della quasi totale assenza di diritti.
 
Gli intellettuali precari francesi, scrivono le Rambach, alternano contratti a tempo determinato a stage mal retribuiti, passando per innumerevoli lavori in nero in ogni ambito della cultura e della comunicazione: insegnamento, ricerca, giornalismo, editoria, fotografia.
 
L’intellettuale precario si vanta della propria “microautonomia” (sceglie di lavorare a casa per non sottostare agli orari d’ufficio, per esempio), rinunciando però alla possibilità di prevedere in che condizioni si troverà tra pochi mesi. Ciò che lo contraddistingue è la passione per il suo lavoro, spesso ai limiti del maniacale. Il confine tra vita professionale e vita privata è impercettibile: non esiste il weekend, ci si porta dietro il lavoro dappertutto, anche nei pochi giorni di vacanza, gli orari sono estenuanti, l’interesse per la retribuzione passa in secondo piano rispetto a un datore di lavoro prestigioso o a un progetto interessante. Anche il rapporto con il consumo è paradossale: l’intellettuale precario predilige i beni e i servizi culturali (non rinuncia al teatro, al cinema, ai libri) a discapito di quelli più classici come l’alloggio, l’alimentazione, l’abbigliamento, spesso pericolosamente trascurati.
 
L’ambizione e la concorrenza spietata sono tra i motivi che impediscono il più delle volte la cooperazione e l’associazione di lavoratori nella stessa condizione.
 
Non sono state poche le critiche subite dalle autrici, soprattutto dopo l’uscita del loro primo libro. Anne e Marine Rambach sono state accusate principalmente di parzialità – parlano di una categoria dall’interno di essa –, di mancanza di scientificità – ma sottolineano fin dalle prefazioni di non avere nessuna pretesa di scrivere un’opera di sociologia – e soprattutto di promuovere la categoria “intellettuale precario”, rasentando in alcuni punti quasi lo spot pubblicitario.
Gli intellettuali precari, sostengono alcune recensioni, esistono almeno dal XIX secolo e non sono, come vogliono le Rambach, un prodotto tipico del capitalismo dalla fine degli anni Ottanta a oggi. Gli scrittori, poi, sono “tradizionalmente precari”: Honoré de Balzac ne è l’esempio più tipico. Ma nella prefazione al loro secondo libro, le Rambach replicano che il loro interesse particolare per il mondo degli scrittori deriva da svariati motivi: innanzitutto, perché esse stesse lo sono; in secondo luogo, perché molti intellettuali precari sono autori di libri – i precari dell’università, per esempio, sono autori delle loro tesi di dottorato – , infine, e soprattutto, perché nel complesso sistema di produzione dell’oggetto-libro l’autore è l’elemento più fragile, pur essendo all’origine del sistema stesso. Nella lunga catena dei “lavoratori del libro”, infatti, l’autore è l’anello meno retribuito, più precario, peggio trattato.
“Il posto che occupano gli intellettuali nel loro mondo è sempre più decentrato, periferico, e il loro lavoro svilito e svalutato. È la tesi di questo libro.”, dichiara ancora la prefazione. “Gli intellettuali precari non costituiscono né una classe né una categoria, ma una nebulosa”.
 
Esiste una simile nebulosa anche in Italia? E qual è la sua situazione? Proviamo a delinearla sul modello delle Rambach: esempi concreti, tanta ironia e nessuna pretesa di scientificità.

Gli unici intellettuali che non hanno scelto la precarietà, scrivono Anne e Marine Rambach, sono i precari della scuola. In Francia, per quanto complicata, la loro situazione è abbastanza definita: i precari della scuola sono in sostanza quelli che non hanno superato il concorso pubblico di abilitazione all’insegnamento (Capes). In Italia, invece, il concorso non viene bandito dal 1999 e le Ssis - scuole di abilitazione all’insegnamento nelle scuole secondarie - dall’anno scorso sono state sospese perché dispendiose, senza che sia stata individuata un’alternativa valida per la selezione della classe docente.

I precari della scuola sono un vero e proprio esercito: 127.000, tra scuole dell’infanzia, primaria e secondaria, quelli che hanno avuto un contratto annuale nel 2009/2010. Molti di più, se contiamo anche quelli nominati per supplenze brevi. Secondo Uil scuola, da cui ricaviamo questi dati, oltre il 15% degli insegnanti nel nostro Paese è precario.
 
Oltre che numerosi, sono più organizzati rispetto alle altre professioni. Sono informati, solidali e arrabbiati, soprattutto in rete, come attestano www.cipnazionale.it, il sito del Comitato Insegnanti Precari, e retedocentiprecari.blogspot.com, il blog del CPS, “coordinamento precari scuola”.
 
“Ho insegnato nelle scuole medie per quattro anni”, racconta Andrea, 37 anni, musicista. “Ero insegnante di terza fascia, cioè senza abilitazione, e ho investito quattro anni della mia vita trasferendomi a mille chilometri da casa mia, sperando con il tempo di diventare insegnante di ruolo. E invece l’anno scorso non sono stato chiamato... Come molti altri colleghi della terza fascia, sono dovuto restare a casa". Da un giorno all’altro, dopo aver insegnato per quattro anni. Ma non è tutto. “Quando ho iniziato a insegnare, non avevo nessuna esperienza con i ragazzi, nessuna formazione pedagogica. Dopo quattro anni, lo Stato si ricorda che non ho la giusta formazione per insegnare e pretende che io faccia dei corsi, per di più a numero chiuso e a pagamento, per imparare quello che ho già appreso negli anni con l’esperienza!” E cosa fa adesso questo ormai ex precario della scuola? “Adesso ho un contratto a progetto come consulente esterno per una casa discografica. È in scadenza, ma penso che sarà rinnovato. Intanto presento il mio disco in giro. Sono tornato alla musica”.
 
Un intellettuale precario a tutto tondo, a dimostrazione che – come i cugini francesi descritti dalle Rambach – bisogna essere versatili, saper cambiare, e soprattutto farlo in fretta.
Il mondo dell’editoria è ben rappresentato nelle inchieste delle Rambach, essendo quello meglio noto alle autrici.
In Italia, prescindendo dall’enorme conflitto di interessi che domina il settore e che è sconosciuto oltralpe, la situazione è simile a quella descritta in Intellos précaires.
 
“In passato l’editoria è stata un precoce laboratorio di forme contrattuali atipiche, oggi è un settore che come pochi altri ha eretto la precarietà a sistema”, leggiamo su www.rerepre.org, il sito della “rete dei redattori precari”. “I lavoratori editoriali sono per la quasi totalità instabili, assunti con contratti capestro che li obbligano a lavorare indefessamente per pochi spiccioli. Spesso, poi, si tratta di contratti atipici irregolari che nascondono una dipendenza di fatto, ma senza le tutele che la legge garantisce ai lavoratori subordinati. Frutto di questa condizione sono lo svilimento della nostra professionalità e lo scadimento formale, e non solo, di tanta parte della produzione editoriale italiana”.
 
A conferma di quanto letto sul sito, interpelliamo Francesco, 27 anni, laureato in Lettere alla sua prima esperienza lavorativa presso una media casa editrice di Napoli: “Il mio compito è quello di recensire i manoscritti che gli aspiranti autori inviano alla casa editrice. Alla fine della scheda esprimo un parere favorevole o meno alla pubblicazione.” Un compito importante, dunque, all’inizio della lunga catena che porta il manoscritto agli scaffali delle librerie. Ma a quali condizioni? “Il mio status lì dentro, credo sia una fra le cose più... ectoplasmiche del mondo. Non c’è un rigo scritto sui miei oneri o i miei onori, tutto al momento dell’«assunzione» si è svolto a voce. In pratica posso prendermi un mese di ferie senza nessun problema, ma non ho nessuna retribuzione né prospettiva.”
A quanto pare, questa situazione riguarda molti, nella casa editrice:
“Lì dentro sono praticamente tutti precari: noi «recensori», a volte ancora studenti universitari, coloro che si occupano della correzione delle bozze – questi ultimi però credo percepiscano una piccola paga – il grafico e addirittura i due segretari tutto fare, senza i quali la casa editrice si fermerebbe. Una desolazione senza alcuna prospettiva, visto anche la tanta concorrenza...”
Sì, perché nonostante le premesse il mondo dell’editoria attira ancora moltissimo l’interesse della nuova “generazione intellettuale”. “Chi svolge anche un piccolo compito in queste condizioni e con queste prospettive” conclude Francesco “ha più l’impressione di fare volontariato che di lavorare, e può farlo solo se ha passione per ciò che fa.”
I giornalisti non navigano in acque migliori.
 
Domenico, 26 anni, giornalista precario: “Per diventare giornalista di professione occorre svolgere almeno 18 mesi di praticantato presso una redazione giornalistica. La redazione deve versare i contributi previdenziali durante tutto il periodo, alla fine del quale il praticante dovrà svolgere un esame scritto ed orale per diventare professionista. Quando si inizia questo lavoro, raramente si viene pagati dagli editori. I praticanti pubblicisti hanno come compenso, nel migliore dei casi, un rimborso spese. I praticanti professionisti, invece, di solito sono pagati a pezzo, oppure percepiscono una somma minima pattuita con l’editore in cambio dell’inizio del praticantato. Il praticantato inizia ufficialmente quando l’editore paga i contributi previdenziali al giornalista, ma spesso passano anni prima che una redazione si decida ad inserire un suo dipendente in un percorso serio”.
 
Perché, quindi, nella categoria i precari sono così numerosi? “Applicare il contratto collettivo nazionale di categoria rappresenta una spesa enorme per la redazione”, ci spiega Domenico. “Un giornalista professionista guadagna in media 1.800 euro mensili e la cassa previdenziale dei giornalisti, la CASAGIT, costa agli editori quasi il doppio di un normale contributo versato all’INPS.”
Anche per quanto riguarda i giornalisti, qualcosa si muove: “A Napoli, la mia città, da quasi un anno è nato il coordinamento campano dei giornalisti precari, che organizza iniziative e vertenze sulla situazione di precarietà in cui versano la maggior parte dei giornalisti locali”.
 
I libri delle Rambach analizzano esaustivamente anche il precariato di fotografi e grafici del mondo del giornalismo e dell’edizione. Noi invece vogliamo focalizzarci su un ultimo ambito, che pure conta numerosi intellettuali precari, trascurato dall’inchiesta delle francesi: quello dell’archeologia.
“Il lavoro dell'archeologo è precario per natura, se non lavori per l’Università”, ci dice Alessandro, 23 anni, studente in Archeologia e presumibilmente futuro intellettuale precario. “Le cooperative hanno contratti a tempo determinato e sono ingaggiate tanto dallo Stato quanto dai privati. Devi immaginare la cooperativa come un’impresa edile: aspetti che ti commissionino il lavoro. Solo che c’è più bisogno di palazzi che di fossi!” Giusta osservazione.
 
“In Italia non esiste un Albo degli archeologi. Poi c’è il problema degli Istituti che dovrebbero formare i professionisti: la SAIA, Scuola Archeologica Italiana di Atene, è nella lista nera dei tagli, ed è il più importante istituto italiano per la formazione di archeologi. I nostri curriculum si basano molto sulle esperienze fatte, e se università e istituti non sono in grado di fartene fare abbastanza, le tue credenziali scendono.” Quindi, nei fatti l’archeologo è un lavoratore a progetto, che rischia lunghe attese tra un contratto e l’altro.
 
L’inchiesta di Anne e Marine Rambach, che – lo abbiamo sottolineato più volte – non sono né sociologhe, né esperte in statistica, né economiste, ha lo svantaggio di non proporre soluzioni concrete. In coerenza con la vena umoristica delle autrici, tuttavia, essa si conclude con una serie di consigli agli intellettuali precari, che traduciamo e facciamo nostri, nell’attesa che un’inchiesta su questo non facile argomento venga realizzata anche in Italia.
 
Kit di sopravvivenza (e, perché no?, di prosperità).
1. Concordare il prezzo del proprio lavoro e non accettare lavoro sottopagato.
2. Non lavorare gratuitamente, non pagare per lavorare.
3. Lavorare in un contesto legale.
4. Tenersi al corrente della regolamentazione del lavoro applicabile al proprio settore.
5. Calcolare con regolarità il proprio tempo di lavoro e le entrate orarie.
6. Non subappaltare lavoro a persone in condizione più precaria.
7. Pagare i contributi (verificare che i datori di lavoro lo facciano).
8. Non praticare concorrenza sleale nei confronti di colleghi di altre professioni.
9. Mettersi in contatto con gli altri precari che lavorano per lo stesso datore di lavoro.
10. Avvicinarsi alle organizzazioni di professionisti del proprio settore.
 
Letture
 
Rambach A. e M., Les intellos précaires, Hachette, Parigi, 2001.
Rambach A. e M., Les nouveaux intellos précaires, Stock, Parigi, 2009.
Sennett R., L’uomo flessibile – Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, 1999.

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