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Gli Usa lasceranno l’Afghanistan per riposizionarsi in Asia centrale. Le contromosse di Russia e Cina

Il completo ritiro dell'esercito americano dall'Afghanistan è previsto per la fine del 2014, ma è probabile che per le forze Usa si tratterà solo di un cambio di campo in vita di un nuovo riposizionamento in Asia centrale.


Una premessa. Nel 2009 il 90% dei rifornimenti alla missione Isaf transitava dal porto pakistano di Karachi, e da lì in Afghanistan attraverso i corridoi di montagna. 
Nell'ultimo anno i rapporti tra rapporti tra Usa e Pakistan si sono fatti sempre più tesi. Le rivelazioni di Wikileaks dello scorso luglio su un presunto sostegno di Islamabad a favore dei taliban, la controversa vicenda di Raymond Davies, la morte di Bin Laden e il sospetto di coperture da parte delle autorità pakistane, l'uccisione del giornalista Saleem Shahzad che indagava sui rapporti tra Al-Qa'ida e l'esercito pakistano, hanno contribuito a deteriorare le relazioni bilaterali tra Washington e Islamabad.
Per evitare possibili ritorsioni, il Pentagono intende potenziare i rifornimenti attraverso il corridoio Nord. Quasi il 40% degli approvvigionamenti arriva da quella direzione, lungo un intricato mosaico di ferrovie e poi di itinerari stradali (poiché l'Afghanistan non ha mai avuto una rete ferroviaria) che nei rapporti del Pentagono è chiamate la “Rete di Distribuzione del Nord”. Ora il Dipartimento per la Difesa Usa vorrebbe incrementare tale quota al 75%.

Inoltre, il governo americano sta negoziando accordi con Kazakhstan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan per consentire ulteriori corridoi di rifornimento per le postazioni afghane. Con le ex repubbliche sovietiche il Dipartimento di Stato americano sta anche trattando l'apertura e la gestione di nuove basi e campi di addestramento, che andrebbero ad aggiungersi a quelli già presenti nella regione.
Ed è soprattutto su questo punto che si concentrano i sospetti dei due colossi del continente, Russia e Cina, sulle reali intenzioni degli Usa una volta archiviata la missione afghana. 

Contrariamente a quanto sostenuto da Obama, secondo Mosca gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di ritirarsi dall'Asia centrale. Anzi, la Casa Bianca starebbe cercando di rinforzare la propria presenza nella regione trasferendovi parte delle strutture militari ora d'istanza a Kabul.

La presunta trattativa con le maggiori fazioni dei taliban volta a negoziare la fine del conflitto, in linea con la strategia del Grande Medio Oriente voluta dagli Usa, comporterà un profondo riassestamento dentro e fuori i confini del Paese. Nel primo caso, si va verso una ripartizione di fatto dell’Afghanistan sulla base di principi etnici; nel secondo, gli americani manterranno la propria influenza in loco da una nuova posizione, proprio dirimpetto ai giganti Russia e Cina.
L'offerta alle repubbliche ex sovietiche di un ruolo di sostegno alla coalizione in Afghanistan non sarebbe che il primo passo verso il collocamento di contingenti supplementari proprio nel cuore della regione. Un progetto noto fin dal settembre del 2009 e confermato da una successione di elementi circostanziali, di cui il potenziamento delle rotte verso Kabul è solo il più recente.
Si parte dall’agosto 2008, quando Usa e Kirghizistan (unico Paese al mondo ad ospitare una base militare americana e una russa) hanno intavolato una trattativa per la costruzione di un centro di addestramento nella provincia del Batkent. Il progetto fu accantonato due anni dopo in seguito agli sconvolgimenti interni del Paese asiatico, ma che ultimamente sembra essere tornata in auge. In seguito l'annuncio che il Fondo per il contrasto degli stupefacenti Usa sta per destinare più di 40 milioni di dollari per la costruzione di centri di addestramento militare in Kirghizistan e Tagikistan, oltre a una struttura per l’addestramento dei cani e un hangar per gli elicotteri in Kazakistan e per il potenziamento dei posti di blocco alle frontiere in Uzbekistan, Kirghizistan e Turkmenistan. Ufficialmente per contrastare il traffico di droga; secondo analisti russi per ridefinire la distribuzione geografica delle proprie infrastrutture militari. In ultimo, il rinnovo dell'affitto della base aerea di Manas, sempre in Kirghizistan, sebbene a un canone (60 milioni di dollari) triplicato.
Misure che hanno allarmato Mosca, preoccupata di veder erodere buona parte della propria influenza nella regione. L'ormai probabile fallimento del progetto di stabilire un centro di addestramento per l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva proprio nella provincia di Batkent, fortemente voluto dal Cremlino, appare un chiaro indizio in tal senso.
Ora anche il Tagikistan pare vicino ad un accordo per ospitare una base americana e il recente raffreddamento delle relazioni tra Mosca e Dushanbe potrebbe accelerare la chiusura delle trattative. Non a caso la visita del Ministro della Difesa russo nel Paese, prevista per il 22 giugno, è stata posticipata dopo il dialogo intercorso tra i vertici tagiki e il rappresentante speciale della Nato per l’Asia Centrale e il Caucaso, James Appathurai. Il Tagikistan potrebbe essere il secondo Paese al mondo ad ospitare sia militari americani che russi, ma la presenza di questi ultimi potrebbe concludersi già nel 2014 con la scadenza dell'affitto delle postazioni. La 201esima Divisione Russa rischia di dover migrare altrove.

Neanche la Cina resta a guardare. Se da una parte Washington rafforza le relazioni con Bishkek e Dushanbe, dall'altra Pechino vanta ottimi rapporti con Astana.
Il 15 giugno la capitale del Kazakhstan ha ospitato il decimo summit annuale dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (Sco), preceduta dal venticinquesimo vertice bilaterale con la Cina avvenuto due giorni prima.
Nel consesso della Sco, il presidente cinese Hu Jintao ha prospettato una più stretta collaborazione tra gli Stati membri nella lotta contro i “tre mali” della regione: il terrorismo, l'estremismo religioso e il separatismo. Fenomeni spesso intimamente correlati.
Tuttavia, la necessità di rafforzare la cooperazione per estirpare il terrorismo internazionale invocata da Hu non sarebbe altro che un tentativo di Pechino per raggiungere un doppio scopo. Proseguire indisturbata la repressione degli uiguri, da un lato, e consolidare la propria influenza in Asia centrale, dall'altro.
Gli uiguri sono un'etnia turcofona e minoranza islamica che vive nel Nordovest della Cina, in particolare nella regione autonoma dello Xinjiang, dove costituiscono la maggioranza relativa (46%). Negli anni i rapporti tra uiguri e han (etnia dominante in Cina) si sono fatti sempre più difficili, come testimoniato dai duri scontri avvenuti presso Ürümqi, capitale dello Xinjiang, il 26 giugno 2009, conclusi con un bilancio finale di 184 morti, (137 han e 46 uiguri), oltre che l'arresto di 1.434 persone (delle quali 200 sono sotto processo e che tuttora rischiano la pena di morte).
Più in generale, il contrasto al terrorismo consentirebbe alla Cina un ulteriore controllo sulle libertà di espressione, di religione o associazione.
D'altra parte, un'interpretazione estensiva del mantenimento della stabilità regionale, secondo la visione di Pechino, potrebbe sottendere l'implicito invito a disimpegnarsi da legami troppo stretti con gli Stati Uniti.
Da tempo Pechino ha posto il rafforzamento delle relazioni economiche e l'approfondimento culturale e degli scambi in Asia centrale tra le priorità della sua agenda. La crescente partnership con il Kazakhstan è indicativa in tal senso.
Nel vertice bilaterale del 13 giugno, il presidente kazako Nursultan Nazarbayev e il suo omologo Hu Jintao hanno firmato una dichiarazione di partenariato strategico, che prevede una maggiore cooperazione intorno ad una dozzina di temi, come lo scambio tecnologico e scientifico, la gestione dell'acqua e la promozione della cultura. Sottoscritto anche un piano congiunto per portare l'interscambio commerciale a 40 miliardi di dollari (il doppio di quello attuale) entro il 2015, e uno per incrementare la fornitura di uranio per le centrali atomiche della Cina (che dell'uranio kazako è già il primo importatore).

4. L'importanza dell'Asia centrale negli equilibri mondiali era già stata intuita dal geografo Halford Mackinder agli inizi del secolo scorso. Nel suo celeberrimo modello dello Heartland, egli postulava l'esistenza di un'area-perno il cui controllo avrebbe garantito il dominio globale, agli inizi dei suoi studi localizzava proprio nell'Asia centrale.
A distanza di un secolo, la corsa al cuore del continente vede impegnate le grandi potenze globali. Usa, Russia e Cina scaldano i motori. Delle tre, Washington sembra partire svantaggiata, sia per la logistica (non ha contiguità con l'area) che per le crescenti ristrettezze di mezzi; Mosca esercita un'influenza in quanto ex madrepatria e principale sovventore dei governi coinvolti; Pechino promette e promuove sviluppo attraverso progetti finanziati con valanghe di denaro.
Una cosa però è certa. Per l'America, l'atteso addio all'Afghanistan nel 2014 non si tradurrà nell'abbandono del cuore dell'Asia. Russia, Cina e crisi economica permettendo.

(nella foto: Carta di Laura Canali per Heartland)

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