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Germania malata, Europa azzoppata, Italia affondata

Spiazzata dalla rinata logica dei blocchi e dalle nuove tecnologie che ne minano i settori di tradizionale eccellenza, la Germania rischia la crisi del proprio modello di sviluppo, con pesanti ricadute sull'Europa, in particolare sul nostro paese

 

L’economia tedesca è entrata in quella che viene stucchevolmente definita “recessione tecnica”, e che forse andrebbe qualificata come “convenzionale”, nel senso che, per convenzione, si considera recessione la contrazione economica per due trimestri consecutivi. Negli Stati Uniti, per qualificare una recessione, il National Bureau of Economic Research analizza una pluralità di indicatori economici e poi emette il verdetto, ovviamente col ritardo imposto dalla frequenza di pubblicazione dei dati macroeconomici.

Il Pil tedesco del primo trimestre 2023 si è contratto dello 0,3% dopo la flessione dello 0,5% degli ultimi tre mesi dello scorso anno. In particolare, da gennaio a marzo si rileva la debolezza della spesa dei consumatori e una anomala e vistosa contrazione della spesa pubblica, che dovrebbe essere destinata a rientrare. Ma non è solo il dato di non crescita di un semestre a far suonare campanelli d’allarme, anche se negli ultimi cinque trimestri solo due hanno avuto segno positivo, ricordando una dinamica italiana caratteristica da molti anni a questa parte.

CRESCITA SCOMPARSA

Secondo le ultime previsioni del Fondo Monetario Internazionale, la Germania nel 2023 sarà l’unico paese del G7 a segnare una contrazione nella crescita, pari allo 0,1%: il paese con la peggiore performance economica del gruppo, dietro anche al Regno Unito che, secondo le ultime previsioni, sarebbe riuscito a evitare di contrarsi quest’anno ed è atteso crescere dello 0,4%. Francia a +0,7%, Italia rivista a rialzo a +1,1%, Giappone a +1,3%, Canada a +1,6% e Stati Uniti al comando con +1,7%.

Il timore è che la Germania sia giunta al capolinea del suo modello di sviluppo e debba reinventarsi, con un processo necessariamente non breve e doloroso. Una valutazione cinicamente realistica afferma che negli ultimi decenni la Germania ha dato in outsourcing la propria sicurezza militare agli Stati Uniti, quella energetica alla Russia e quella manifatturiera alla Cina. Berlino ha il problema di costi energetici non competitivi, una eccessiva dipendenza dalla tradizione ingegneristica di vecchia scuola, una scarsa reattività politica e commerciale a orientarsi su settori a maggiore crescita, un sistema finanziario molto statico e frammentato.

Sui costi dell’energia, dove l’handicap appare europeo prima ancora che tedesco (anche se l’elevato peso di industrie energivore danneggia soprattutto Berlino), la risposta della coalizione di governo è stata la previsione di sussidi pari a 4 miliardi di euro annui, col costo del kilowattora da fissare a sei centesimi per l’80% del consumo storico (rivedibile dinamicamente in caso di ribassi dei prezzi), in modo da stimolare il risparmio energetico. Il sussidio, che è previsto durare sino al 2030, costerà tra 25 e 30 miliardi di euro e verrà finanziato attingendo al Fondo di stabilizzazione economica creato nel 2020 per supportare Lufthansa durante il Covid ma anche col recupero parziale dei sussidi energetici oggi erogati alle famiglie.

Questi sussidi energetici sono stati concepiti dal ministro dell’Economia, il verde Robert Habeck, ma sono avversati da quello delle Finanze, il liberale Christian Lindner, che sostiene che i risparmi di fondi dedicati e preesistenti non dovrebbero essere dirottati ad altre spese ma recuperati al bilancio dello stato.

ELEVATO COSTO DELL’ENERGIA

Habeck risponde che questo piano serve a difendere settori energivori tedeschi quali acciaio, metalli, vetro dalla concorrenza dei sussidi cinesi e statunitensi ma anche a consentire al paese di ridurre la propria dipendenza sviluppando capacità produttiva autonoma su pannelli solari e semiconduttori. Nel mezzo di una coalizione governativa che non brilla per coesione c’è il cancelliere Olaf Scholz, che dovrà mediare.

La questione è delicata sotto molteplici aspetti. La Germania può sfruttare la propria potenza fiscale, soprattutto oggi che i vincoli europei agli aiuti di stato sono stati fortemente allentati sino a fine 2024. Il previsto sussidio potrebbe alterare profondamente il mercato unico europeo e creare attriti con gli altri paesi dell’Unione. Al contempo, però, ci sono voci domestiche in dissenso che ritengono che obiettivo tedesco non dovrebbe essere la preservazione dei settori tradizionali ma indirizzare risorse pubbliche verso quelli innovativi.

Ma il timore resta quello di subire una deindustrializzazione, anche da delocalizzazione: l’amministratore delegato di Volkswagen, che di recente ha messo in pausa la realizzazione di un impianto per batterie in Est Europa preferendo i minori costi del Canada, ha identificato la soglia competitiva del prezzo dell’elettricità in Europa a 7 centesimi/kWh. La Germania oggi resta a svantaggio competitivo sui prezzi dell’energia rispetto alla media del resto del G7. Nel frattempo, lo sviluppo dell’infrastruttura delle rinnovabili e l’installazione di capacità eolica e solare (frenata da una relativamente ridotta linea costiera e basso soleggiamento) nel 2022 sono avanzate alla metà del passo previsto dai piani nazionali.

PERDITA DI COMPETITIVITÀ TEDESCA: SINDROME CINESE?

La Germania soffre poi moltissimo la transizione nel settore automotive, dove le marche cinesi elettriche stanno progressivamente schiacciando la quota di mercato degli occidentali in Cina e invadendo i mercati europei. Mosse difensive quali lo spostamento su veicoli ad alta marginalità o la creazione di centri ricerca e design modellati sulle specificità dei mercati esteri, soprattutto cinese e americano, sono scommesse difensive ad elevato rischio.

La Cina sta diventando sempre più critica per Berlino sotto l’aspetto geopolitico, che porta con sé quello economico. Il tentativo europeo di opporsi a logiche americane di confronto aspro e “totale” con Pechino, ha trovato per ora un manifesto nel termine derisking, meno radicale di decoupling ma pur sempre indigesto alle grandi multinazionali tedesche, che oppongono forte resistenza ai pacati inviti di Scholz a non porre tutte le uova nello stesso paniere e ridurre la dipendenza germanica dal Regno di Mezzo. “Impensabile” è l’aggettivo che accompagna la valutazione di scenari di divorzio o anche solo di ridimensionamento dei rapporti commerciali. Ma è possibile che il divorzio, almeno da un lato, avvenga a prescindere dai desiderata delle aziende tedesche: nei primi quattro mesi del 2023, l’export tedesco verso la Cina si è contratto di ben l’11,3% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Colpite auto, componentistica e chimica. La maggior parte dei paesi europei hanno segnato miglioramenti nelle proprie esportazioni verso Pechino.

BASF, che si è ridimensionata in Germania mentre costruiva un impianto da 10 miliardi di euro in Cina, nel primo trimestre di quest’anno ha registrato nel paese asiatico vendite per 2,3 miliardi di euro, un calo del 29% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. Il gruppo con sede a Ludwigshafen imputa il risultato alla diminuzione della domanda, che ha anche contribuito a ridurre i prezzi dei suoi prodotti chimici. Volkswagen, che in Cina vende più auto di qualsiasi altra casa automobilistica, ha dichiarato che nel primo trimestre le consegne nel paese sono diminuite del 15% nel primo trimestre. La società ha segnalato che il dato risente di un’impennata delle vendite a fine 2022, quando i consumatori cinesi hanno approfittato dei sussidi per i veicoli elettrici e dell’esenzione fiscale sui veicoli a combustione, entrambe terminate a dicembre. VW produce in loco la maggior parte delle auto che vende in Cina. Anche Bosch ha registrato un indebolimento della domanda cinese, spingendo le vendite del primo trimestre in area Asia Pacifico a in calo del 9,3%.

Come ha evidenziato una recente ricognizione di Bloomberg, il paese si sta scoprendo in affanno e minacciato sotto molti fronti da un’erosione di capacità competitiva. Il sistema tedesco di produzione di brevetti, da sempre alla base dell’eccellenza manifatturiera del paese, mostra evidenze di rallentamento e un vero ritardo nei settori più innovativi. Il paese resta fortemente burocratizzato e con scarsa propensione alla digitalizzazione. Nel settore della tecnologia software ha un campione, SAP, che data dagli anni Settanta e praticamente null’altro. Gli investimenti in venture capital sono complessivamente esigui, il sistema finanziario è suddiviso tra la sclerotizzata rete di casse di risparmio politicizzate e due banche di grandi dimensioni, Deutsche Bank e Commerzbank, che tuttavia sono piccole rispetto ai campioni internazionali.

Stretta nella nuova logica dei blocchi, che ne danneggia l’approccio mercantilista, dotata di tasche profonde ma comunque piccole per competere con Cina e Stati Uniti, la Germania rischia di entrare in un periodo di bassa crescita che sarebbe fortemente problematico per l’intero continente. Forse tutte queste considerazioni stanno iniziando a farsi strada nella psicologia dei tedeschi, spingendoli a staccare il piede dal pedale dei consumi. Pare del tutto superfluo ricordare che, se la Germania entrasse in un periodo di bassa crescita, per l’Italia i problemi sarebbero seri, dato il nostro posizionamento nelle catene di fornitura tedesche.

 

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