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Gabbiette salariali e scale mobili sussidiate

La proposta leghista di legare all'inflazione locale parte della retribuzione sembra non conoscere il concetto di costo della vita e voler reintrodurre quello di scala mobile, disinteressandosi della produttività

 

Nei giorni scorsi la Lega ha presentato una proposta di legge il cui obiettivo è quello di “dare la possibilità alla contrattazione di secondo livello, territoriale e aziendale, di utilizzare il parametro del costo della vita, oltre a quelli già previsti per legge, nell’attribuzione dei trattamenti economici accessori ai dipendenti pubblici e privati”.

Immediatamente, si sono levate grida di denuncia del presunto tentativo di ripristino delle cosiddette gabbie salariali, meccanismo rimasto in vigore tra il 1954 e il 1969 e definitivamente cancellato nel 1972, che prevedeva la parametrazione dei salari al costo della vita in differenti zone del paese. Ad un esame più approfondito la proposta leghista, depositata al Senato, prevede qualcosa di assai più limitato ma soprattutto, reiterando il solito vizietto italico, tenta di sussidiare la misura con soldi pubblici.

Il primo firmatario della proposta, Massimiliano Romeo, ha ribadito che non c’è alcuna intenzione di minare il principio della parità retributiva, e infatti ci si limiterebbe ai cosiddetti trattamenti economici accessori definiti all’interno di singoli contratti, pubblici e privati, adeguandoli a indici Istat opportunamente “localizzati”.

INFLAZIONE NON È COSTO DELLA VITA

Prima osservazione: si parla di variazioni del costo della vita, come misurate appunto da indici Istat, e non di potere d’acquisto, cioè di quanto è possibile acquistare per una data retribuzione monetaria. Non è questione di lana caprina, anche se a molti sfuggirà il senso. I proponenti respingono poi l’accusa di discriminazione tra Nord e Sud, preferendo segnalare che il costo della vita è differente tra zone urbane e periferiche di una stessa area geografica. Anche se, ribadiamolo, il “costo della vita” è una grandezza di stock (quanto costa comprare un dato paniere di beni e servizi in diversi contesti), mentre l’inflazione è una grandezza di flusso, indicando di quanto sono variati i prezzi dei beni del paniere nell’unità di tempo considerata.

La proposta prevede poi contratti collettivi di secondo livello stipulati su base territoriale sussidiati da un credito d’imposta destinato alle aziende fino a 3.000 euro a dipendente nel triennio 2024-2026 (per un massimo di 100 milioni di euro). In pratica, si tratterebbe di inserire una dimensione “territoriale” alla contrattazione collettiva. Questo sussidio, per il triennio indicato, verrebbe finanziato prelevando risorse dal Fondo sociale per occupazione e formazione.

Nel caso dei dipendenti pubblici, si prevede che il trattamento accessorio non possa valere più di un decimo di quello complessivo. A questa frazione si applicherebbe, par di capire, questa sorta di “scala mobile locale”. Nel settore privato, come detto, i datori che decidessero di legare la retribuzione integrativa al costo della vita locale, riceverebbero il sussidio.

Le reazioni contrarie alla proposta sono centrate verosimilmente sul fatto che potrebbe trattarsi di un cavallo di Troia per inserire una componente retributiva decentrata che, in via del tutto teorica, potrebbe arrivare a scardinare in un futuro più o meno remoto la contrattazione nazionale. Ma non vorremmo portarci troppo avanti con la sceneggiatura.

Le criticità di siffatta proposta sono più di una. In primo luogo, come detto, pare che i proponenti non abbiano chiarissima la differenza tra costo della vita e variazione del medesimo nell’arco temporale considerato. Stock e flusso, appunto. Poi, e credo ancor più problematica, c’è questa visione secondo cui serve reintrodurre una scala mobile locale alle retribuzioni, disinteressandosi della variabile chiamata produttività, che evidentemente al mainstream culturale italiano è avversa e provoca spesso reazioni allergiche, a destra come a sinistra.

LA SCALA MOBILE DI TROIA

Vi pare che un datore di lavoro possa avere interesse a indicizzare al costo della vita locale le retribuzioni integrative, anziché a recuperi di produttività? A me pare di no. Alla fine, alla detassazione per il cosiddetto “salario di produttività” oggi in essere si sommerebbe anche quella per scala mobile locale o la detassazione cattiva scaccerebbe quella buona? Paradossalmente, a sinistra potrebbero accorgersi che questo è effettivamente un cavallo di Troia ma per riportare in vita la scala mobile, e chiederne la reintroduzione ed estensione differenziata su base territoriale. Che nostalgia.

Poi, come detto, c’è questa coazione a sussidiare. C’è sempre un sussidio, da qualche parte, per tenere in piedi qualche meravigliosa e rivoluzionaria proposta per il mondo del lavoro. Alla fine, la proposta leghista sarebbe imparentata, per il ramo genealogico dei sussidi, con quella dell’opposizione che vorrebbe integrare con soldi pubblici il salario minimo. Una inconfondibile aria di famiglia italiana allargata.

Ribadisco la mia posizione: i salari differenziati per differenti condizioni di produttività si originano in conseguenza di decentramento a livello aziendale e territoriale della contrattazione collettiva. Il salario minimo è funzionale e necessario a tale decentramento. Per tutto il resto, ci sono fantasie sussidiate e manifestazioni di insipienza (o furbizia) da parte di chi risolverebbe tutto con soldi pubblici e magari senza conoscere la distinzione tra costo della vita e inflazione.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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