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Federalismo: dov’è? Non nella sanità

Su lavoce.info, Massimo Bordignon e Nerina Dirindin esaminano lo stato di avanzamento (si fa per dire) dei lavori federalisti, con particolare riferimento ai costi standard nella sanità, giungendo alla conclusione che siamo ancora avvolti dalla più fitta nebbia, oltre al fatto che pare esistere un robusto rischio di involuzione rispetto allo status quo.

Premesso che i due decreti finora approvati (federalismo demaniale e Roma Capitale) sono ancora una volta scatole vuote in attesa di futuri e futuribili criteri di riparto, la situazione è di paralisi conclamata riguardo ai costi standard della sanità, dove il conflitto oppone regioni del Nord a quelle del Sud.

L’ultima versione prevede la preventiva quantificazione di “un fabbisogno sanitario nazionale (ora denominato fabbisogno standard), alla luce delle compatibilità delle finanze pubbliche, fondo che viene ripartito tra le diverse Regioni”. E fin qui, non ci servono rocket scientists. Il problema è che questo criterio macroeconomico e di compatibilità finanziaria rischia di essere insufficiente ed insoddisfacente, perché va incrociato con i livelli essenziali di assistenza.

Giù per li rami, anche i criteri di riparto del fabbisogno nazionale sono quelli già adottati in passato (quota procapite ponderata per l’età della popolazione), ma questa volta applicata sul 100 per cento della spesa, eliminando quindi la componente di spesa sanitaria che è indipendente dall’età. Non si considerano inoltre altri indici, quali quello di deprivazione, che consentirebbero di stimare la variabilità del fabbisogno sanitario a parità di struttura di età della popolazione. Superfluo segnalare che l’adozione di questi criteri correttivi determinerebbe maggiori trasferimenti sanitari verso il Mezzogiorno.

Altro criterio di dimensionamento generale del fondo sanitario “federale” è quello dei criteri di determinazione delle regioni-benchmark, ove si è passati dal pareggio di bilancio a criteri di “qualità, appropriatezza ed efficienza”. Che se da un lato evita che si prendano a modello le regioni che tagliano l’assistenza per puntare al pareggio di bilancio, dall’altro introduce nuovo fumo nella determinazione dei criteri.Last but not least, le regioni-benchmark sono salite da 3 a 5. Ma così facendo aumenta la probabilità che si fotografi l’esistente.

Che nel percorso di dimensionamento delle risorse e dei criteri di riparto vi siano innumerevoli trade-off e difficoltà definitorie era risaputo. Si poteva agevolmente ipotizzare che la ricerca del minimo comune denominatore avrebbe determinato forti pressioni al ribasso, diluendo la riforma. Quello che si continua a non capire è l’entusiasmo di Bossi e compari per una riforma che semplicemente non esiste, e che ha un’alta e (a questo punto) crescente probabilità di non vedere mai la luce.

Ovvio che la base leghista meno instupidita dalla propaganda cominci a porre domande, e lo faccia con frequenza crescente. La reazione di Bossi è prevedibile: utilizzare le sagre paesane per far battute da trivio e rimbecillire di loghi padani il suo popolo. Anche in questo caso vale quello che diciamo da anni per Berlusconi: fino a che punto l’elettorato continuerà a bersi tutte queste panzane, propalate con il carburante del “nemico interno”, dei ladri romani, dei giudici comunisti, della casa di Montecarlo e del destino cinico e baro? Dobbiamo proprio giungere alla conclusione che gli italiani (padani inclusi) hanno un’elevata predisposizione a farsi coglionare?

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