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Fardelli d’Italia, tra nazional-sovranismo e Made in Italy

Tra nazional-sovranismo e protezione del Made in Italy, Giorgia Meloni esibisce le sue meravigliose idee di politica economica per fermare il declino e papparsi la Lega

 

A intervalli regolari, come è all’incirca fisiologico che sia, in questo paese spunta una “nuova” offerta politica. Spesso si tratta solo di nuova grafica e logo, destinati a cadere rapidamente nell’oblio non prima che gli ideatori abbiano saltato di liana accasandosi altrove con la loro dote di voti, veri o immaginari. Altre volte il marchio si gonfia al punto da attrarre consenso popolare e potere, in una caratteristica transumanza con codazzo d’ordinanza di giornalisti, grand commis di Stato e partecipate pubbliche, accademici e soubrette assortite. Il marchio diventa candidato a qualsiasi cosa: da un predestinato trionfo elettorale all’espressione del prossimo premier.

È precisamente in questa fase che, di solito, si tengono le cosiddette conferenze programmatiche, vetrine in cui si cerca di presentare qualcosa che possa essere definito programma, e prende corpo il caratteristico gioco di società chiamato pantheon, cioè la collocazione di personaggi storici entro le coordinate politiche e culturali del partito illuminato dall’aura. È quanto sta accadendo a Fratelli d’Italia, il partito di destra sovranista post-missino ma non troppo, con fiamma tricolore nel logo, creato da Giorgia Meloni. Che ha tenuto a Milano (non a caso) la sua tre giorni programmatica, per illuminare la propria offerta politica.

Dammi quattro emme

Per mia deformazione, non solo professionale, sono andato a cercare i punti programmatici di politica economica perché sono convinto che siano quelli a definire il grado di innovazione realistica di un’offerta partitica. Non ho trovato moltissimo se non accenni di Meloni medesima, a margine delle solite lamentazioni sul Pil che cresce poco, su Draghi che è troppo scarso perché non riesce a camminare sulle acque, sulla ‘ggente che ‘gnaafa più, eccetera. Quindi la mia sarà una non-analisi di un non-programma.

Poiché è sempre utile usare facili schemi mnemonici per ricordare le proprie priorità, Meloni ci offre quattro emme, come l’iniziale del suo cognome: mamma, mare, merito e marchio. Mamma come difesa del tradizionale ruolo della maternità, assaltato dalla bieca ideologia gender, qualsiasi cosa ciò significhi; mare come difesa (di assoluta avanguardia) del nostro valoroso bagnasciuga e dei suoi patrioti balnearimerito, non mi è chiaro riguardo cosa ma forse perché quella è la parola d’ordine che definisce per negazione dalla sinistra che punta all’eguaglianza delle condizioni di arrivo. Lo so, sono concetti molto logori ma lo è anche questo paese, quindi portiamo pazienza.

Da ultimo, marchio come Made in Italy, la copertina di Linus dei nostri sovranisti, l’ultima spiaggia contro le multinazionali con tante zeta e contro le immancabili “svendite” allo Straniero del nostro patrimonio, incluso quello che ha solo la colonna del passivo mentre l’attivo è evaporato molto tempo addietro ma di certo a causa di complotti orchestrati oltre confine.

Meloni vorrebbe un “Liceo del Made in Italy”. Voi capite che, su queste basi, commentare diventa arduo. Ho scoperto che già oggi esiste l’istituto professionale statale per industria e artigianato per il Made in Italy, di cui non conoscevo l’esistenza. Non so a che servirebbe un liceo e quali sarebbero le materie insegnate. Mi ricorda un po’ la Panda Ferrari con cui Berlusconi voleva rivitalizzare una allora agonizzante Fiat. Ma passiamo oltre, è meglio.

Più assumi, meno paghi

Fratelli d’Italia è quel partito che, per evitare delocalizzazioni, voleva rivedere la fiscalità italiana sulle imprese “in considerazione anche del livello di imposizione esistente negli altri paesi membri dell’Ue”. L’uovo di Colombo, in pratica: come abbiamo fatto a non pensarci prima? Ma non è tutto: il partito di Meloni poco tempo fa chiedeva anche di “coprire i ‘costi fissi’ che gravano imprese, commercianti, artigiani e lavoratori autonomi”. Qualsiasi cosa ciò significhi.

Che altro? Ieri Meloni al Tg1 ha detto che, se fosse al governo, attuerebbe

Il principio “più assumi, meno paghi”: una detassazione sulle imprese commisurata alla quantità di manodopera rispetto al fatturato.

Non siate troppo esigenti: Meloni non è economista e dubito abbia particolare dimestichezza col fisco. La sua biografia dice che è giornalista, come Matteo Salvini, Massimo D’Alema, Gianfranco Fini e molti altri nostri leader politici. “Sempre meglio che lavorare” era il titolo di un libro di Luca Goldoni sulla professione giornalistica: non so perché mi torni in mente proprio in questo momento.

Anche al netto di tali attenuanti professionali generiche, non mi è chiaro che diavolo si intenda. Detta così, pare che Meloni sogni un paese ad alta intensità di manodopera, dove automazione e tecnologia sarebbero quindi duramente contrastate. Una specie di gigantesca comune, ma patriottica e conservatrice. Più assumi, meno paghi di tasse. Ma non è geniale, tutto ciò?

Detassare la mancia del nonno

Altro punto del Meloni-pensiero in economia:

Detasserei quella parte della pensione che gli anziani dedicano al sostentamento dei loro figli e nipoti.

Oh, ecco qualcosa di veramente rivoluzionario: diamo aumenti ai pensionati e detassiamo la parte che viene girata ai congiunti. Un vero welfare di famiglia. E razionalizziamo la spesa: dirottiamo le risorse del reddito di cittadinanza alle pensioni minime, e da lì i soldi arriveranno a figli e nipoti, opportunamente detassati. Un nuovo trickle down, si direbbe. Rigorosamente de noantri.

Delle coperture di tali prodigiose misure non c’è traccia ma forse Meloni pensa di ricorrere ai dazi, in linea di principio. Perché, come da rigorosa tradizione sovranista, c’è questa formidabile asimmetria per cui il mondo deve comprare i nostri meravigliosi prodotti ma non azzardarsi a vendere le sue schifezze qui da noi, mettendo a rischio il patrio lavoro. Ricordo ancora le leggendarie impuntature di Luigi Di Maio a inizio legislatura (cioè prima di togliersi il gilet giallo e diventare una cheerleader di Emmanuel Macron), quando voleva ispezionare i container direttamente al porto di Rotterdam e fermare a mani nude l’invasione.

Il ritorno dello stato (comatoso) nazionale

Non proseguo oltre: altre “proposte” meloniane arriveranno, non meno assurde di queste. L’elaborazione culturale post-missina ma non troppo si avvarrà dell’imprescindibile apporto intellettuale di Giulio Tremonti, dei suoi videogames e del suo Mundus Furiosus. La globalizzazione è morta, gongola il tributarista neoumanista di Sondrio. Attenti a quello che desiderate: potrebbe avverarsi.

I tremontismi di cui Fratelli d’Italia si avvarrà prevedono il ritorno e il primato dello stato nazionale. Tutto molto bello ma forse il paese dovrebbe prima prendere consapevolezza dei propri limiti e vulnerabilità in questa dimensione. Che ruolo internazionale ha avuto l’Italia per decenni, ad esempio? Quello di ventre molle del Mediterraneo.

Questo riscatto patriottico con le pezze al culo difficilmente ci porterebbe molto lontano da lì. A meno di passare il tempo a minacciare di farsi esplodere in una camera di cemento armato. Ai nostri sovranisti piace il modello ungherese ma scordano che l’Ungheria oggi è solo il parassita d’Europa. Se rimettessimo indietro l’orologio, Orban perderebbe pacchi di soldi comunitari. Sono capaci tutti di essere orgogliosamente nazionalisti e illiberali, quando c’è qualcuno che paga il conto. Si chiama accattosovranismo.

meloni destino

Ma l’unica cosa che conta è che, in apparenza, si è messo in moto quell’effetto-aura che spinge Fratelli d’Italia ad attrarre personale politico e cosiddetti intellettuali come mosche sul miele (ho detto miele, mi raccomando). Obiettivo, quello di drenare elettorato e cacicchi alla Lega, soprattutto al Nord. I patrioti sono atlantisti di provata fede (mi pare strano ma prendiamoli in parola), quindi già chiedono ristori a Joe Biden per dimostrare la loro granitica fede occidentale. Nulla di inedito, lo chiede anche il padre nobile della sinistra allargata italiana, Romano Prodi. Altrimenti ci arrabbiamo e forse ci vendiamo. Magari alla Cina.

In attesa che la leggendaria classe imprenditoriale settentrionale abbandoni Salvini e le sue felpe di condominio e trasferisca il proprio endorsement alla fiammella patriottica, perché le hanno provate tutte e proveranno anche questa (un sussidio val bene un centralismo d’annata), attendiamo che nuove meravigliose proposte prendano forma. Ma non scordiamo che di solito il dentifricio non rientra nel tubetto e la frittata non torna uova. Con un programma del genere avremmo l’ennesimo scherzo di cattivo gusto ai danni del paese più credulo d’Occidente, e non solo. Un paese gravato da crescenti oneri, rigorosamente impropri. Li chiameremo fardelli d’Italia.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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