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Facebook: dall’altare alla polvere - perchè sorprendersi?

Davvero divertente (si fa per dire, ovvio) l’escalation di Facebook in Italia. Proprio sull’onda della mania dilagante, con tanto di libri e articoli a iosa, sbucano puntuali problemi, dubbi, ritirate. Forse che nessuno aveva letto “the fine print” o fatto un po’ di sano “homework” (come si dice da queste parti)? E neppure riflettuto un attimo sulle dinamiche equivoche che circondano fin dalla nascita questo presunto gioiellino del social networking? O seguito le più recenti infestazioni di worm, hijacks e simili?

Comunque sia, ecco che l’altro giorno Riccardo Luna (Wired Italia) se ne esce con questo annuncio: “Non sono il primo e non sarò l’ultimo, purtroppo. Sono uno dei tanti a cui hanno rubato l’identità digitale. E’ accaduto su Facebook. Mentre vi scrivo, alle 16.35, c’è un tale che si chiama Riccardo Luna, che ha la mia foto, la mia data di nascita, la mia attuale occupazione, ma che non sono io.”

Fra i dettagli successivi, Riccardo informa che presenterà regolare denuncia (immagino contro ignoti) ma non prima di martedì, perchè la Polizia Postale gli ha risposto; “Sì, dotto’, non è colpa nostra, non lavoriamo nei festivi’”. Vabbe’ - però siamo in Italia, perchè meravigliarsi? Meglio: è davvero fatto tanto grave? “Identità digitale”? Su Facebook?

Anzi, magari va preso come un segnale o suggerimento, confermato (giustamente) dalla maggioranza dei commenti al suddetto post: meglio lasciar perdere le azioni legali, non si tratta di rapine o truffe finanziarie o reati gravi, cose simili succedono pressochè ogni giorno online. Nonostante Internet stia per compiere 40 anni, l’hacking bonario (o meno) rimane purtroppo ordinaria amministrazione. Siamo mica nati ieri, giusto?

Analogamente, perchè mai sorprendersi del fatto che “la proprietà è di Facebook”? È quanto scrive Massimo Mantellini su Punto Informatico, riferendosi ai nostri contenuti ivi inseriti. In breve: “Facebook diviene proprietario e giudice di tutto ciò che scriviamo, delle foto che pubblichiamo, che si riserva il diritto di cambiare le condizioni contrattuali senza darcene notizia, che può cancellarci l’account senza darne spiegazione, che non ci fornisce alcuna garanzia sui software che rende disponibili e che rimanda invece all’utente per qualsiasi questione legale causata dai contenuti messi in rete sul sito.”

Ma scusate, da quand’è che andiamo sottolineando (si, mi ci metto anch’io, a ragione) questi abusi sull’user-generated content? E di come, con la scusa del web sociale, in realtà si vadano riproponendo quei “walled gardens” dei primi sistemi recintati alla CompuServe o AOL? (Risegnalo solo due delle varie analisi prodotte al riguardo: The social web and its social contracts e Toward a critique of the social web.)

Sarò scemo io, ma non capisco neanche perchè debba sorprenderci il fatto che Facebook non abbia uffici in Italia, che l’unica postazione europea, a Londra, non sia così solerte nelle risposte. Oppure che, scrive ancora Massimo: “Nel caso di contenzioso farà poi piacere sapere a noi, suoi nuovi sottoscrittori, che le leggi di riferimento sono quelle del Delaware e che la corte competente è invece nella soleggiata California.”

Ma per quanto tempo hanno fatto lo stesso i vari Google, Yahoo e compagnia bella? Eppure li abbiamo usati tutti per anni senza problemi. Pur se è vero che occorra far rispettare le leggi nazionali, soprattutto nell’Internet odierna, (dal divieto a Yahoo di vendere paraphernalia nazisti in Francia e Germania alle limitazioni di accesso in Cina e Arabia), la questione è tutt’altro che semplice. Che Twitter o Tumblr abbiano uffici a Roma? O forse si vuole auspicare che tutte le aziende del Web 2.0 si mettano in regola localmente, prima di consentire a tutti gli utenti del mondo di usarne strumenti e servizi?

Ah, dimenticavo, un altro fatterello di ieri: uno degli admin del gruppo di Global Voices in Italiano, sempre su Facebook, mi segnalava che avevamo “perso tutti i 173 iscritti al gruppo”. Per ritrovarli, come per magia, entrando dall’acconto di un amico un’oretta dopo. Come ho poi verificato con il mio stesso acconto. Hacking? Bug? Boh? E cosa avremmo dovuto fare? Cosa possiamo fare? Promettere denunce (sempre contro ignoti, presumo) nel caso dovessimo perdere tutti quei “contatti”? A parte ricopiarli offline, ovvio.

Lungi dall’appoggiare la “wild wild Net” dei vecchi tempi, secondo me occorre insomma essere realisti. E prendere il tutto con un grano (o due) di sale, come ben sa chi naviga online da tempo. Oltre a riesumare quello spirito critico così poco di moda oggi, smettendola di tessere cyber-lodi a più non posso o di esaltare tutto quel che viene a bella posta targato Web 2.0. Salvo poi lamentarsi al minimo inghippo…

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