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Fabio Fazio e il contratto di “Che tempo che fa” | La Rai come le concessionarie autostradali: il mercato degli omissis

L’ambigua natura della Rai – concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, quindi destinataria del relativo canone, e al contempo soggetto operante in concorrenza – non manca di creare problemi, se non addirittura danni. Da ultimo, ne forniscono conferma le considerazioni svolte dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) circa il contratto fra la Rai e Fabio Fazio.

di Vitalba Azzollini

Il contratto, per l’entità dei compensi pattuiti, ha suscitato molte polemiche sin dall’inizio. Ma non è questo il punto: anzi, non lo sarebbe se la Rai svolgesse in modo nettamente separato il servizio finanziato dal canone e l’attività finanziata con la raccolta pubblicitaria; o, quanto meno, se garantisse piena trasparenza sull’uso in modalità “vasi comunicanti” di denari pubblici e di altri introiti. Ma la trasparenza è proprio ciò che manca, come si vedrà in prosieguo, per più di un verso.

Innanzitutto, una premessa:nonostante il contratto in questione sia sottratto al codice dei contratti pubblici (d.lgs n. 50 del 2016), esso tuttavia è soggetto ad alcuni principi previsti nel codice stesso, il cui rispetto può essere valutato dall’Anac, in sede di attività di vigilanza. Ora giova riassumere i fatti. A seguito di un esposto, l’Autorità ha cominciato a indagare circa l’accordo tra la Rai e Fazio.

I diritti sul format di “Che tempo che fa” appartenevano al suo conduttore, il quale avrebbe potuto disporne a favore di competitors della Rai. Al fine di evitare questa eventualità, che alla fine della scorsa stagione televisiva sembrava si stesse concretizzando, la Rai stipulò un contratto preliminare, seguito da uno definitivo nel luglio 2017, ove conveniva con Fazio che, a fronte di un ingente corrispettivo, egli avrebbe autoprodotto la trasmissione attraverso una società di sua proprietà, non ancora costituita.

Già questo, secondo l’Anac, mostra due anomalie. Da un lato, il contratto preliminare non è previsto per la contrattualistica pubblica; dall’altro lato, il conduttore ha agito in veste di “garante” di una società inesistente. Ma andiamo oltre. Come di norma, la Rai ha venduto spazi pubblicitari agli inserzionisti, applicando loro un certo prezzo in relazione alle percentuali di share ipotizzate; e, aspettandosi alti livelli di ascolto, ha anche stabilito una “elevata presenza di inserzioni pubblicitarie (…) prossima ai valori massimi orari ammissibili sulla singola rete”, con “corrispondente riduzione degli spazi pubblicitari disponibili sulle altre reti onde poter rispettare il tetto pubblicitario settimanale”.

In altri termini, ogni spot trasmesso durante la trasmissione è stato uno spot in meno per altri programmi e canali della TV di Stato, dati i limiti legislativi all’affollamento pubblicitario: dunque, la posta messa in gioco nella scommessa sul buon esito di questo “investimento” era molto alta. Dopo le prime puntate, visti i risultati effettivi, la Rai ha rettificato le percentuali di ascolto stimate, e conseguentemente le entrate ad esse collegate. Tuttavia, l’Anac reputa comunque sussistente il rischio di “una possibile sovrastima dei ricavi ipotizzati”. Ciò potrà essere verificato solo in fase consuntiva, ma intanto l’Autorità ha rimesso alla Corte dei Conti la valutazione dei possibili profili di danno erariale che dovessero eventualmente emergere.

Quanto sopra esposto è in una delibera pubblicata sul sito web dell’Anac. A parte la sintesi riportata, quali ulteriori dettagli possono leggersi nella delibera citata? Assolutamente nient’altro: la Rai ha fatto “omissare” ogni numero e dato – costi, ricavi, percentuali ecc. – “per la tutela degli interessi economici dell’Azienda”, cioè affinché non ne venissero a conoscenza le emittenti concorrenti. Di certo, questa è un’ottima ragione per pretendere riservatezza, ma sarebbe meglio rammentare un dettaglio non irrilevante: mentre si stipulava un contratto avente ad oggetto somme enormi, si garantiva alla pubblica opinione – dunque ai contribuenti – che il lauto costo sostenuto sarebbe stato “pressoché interamente ripagato con la pubblicità“.

Tuttavia, se i ricavi pubblicitari non sono sufficienti per ripagare il tutto – possibilità ipotizzata dalla delibera dell’Anac – è proprio con i denari dei contribuenti, cioè il canone televisivo, che va sanato l’eventuale buco. Ma, stanti gli omissis, questi ultimi non possono conoscere elementi essenziali del contratto con cui la Rai ha assunto un rischio rilevante – alte percentuali di ascolto e, quindi, elevate entrate dalla pubblicità, sottratta da altri programmi – che andrà eventualmente coperto con i loro soldi. L’asimmetria è evidente e discende da una competizione praticata usando pubbliche risorse.

Ma l’opaca ambiguità dell’emittente televisiva emerge anche per altri versi. Nel tempo non è mai stata formulata una “puntuale, e circoscritta, definizione dell’estensione del servizio pubblico”, per addivenire a “una chiara distinzione tra l’attività svolta e le fonti di finanziamento utilizzate da un lato per il servizio pubblico e dall’altro lato per l’attività commerciale della concessionaria”. Eppure, considerato che gli introiti da canone rappresentano veri e propri “aiuti pubblici” e non possono essere convogliati “su contenuti che non siano di servizio pubblico”, sarebbe “fondamentale qualificare il contenuto di servizio pubblico”: ma anche in occasione del recente rinnovo del Contratto di servizio tra il Ministero dello Sviluppo Economico e la Rai per il periodo 2018-2022 ci si è ben guardati dal farlo.

 

Infatti, tale Contratto – come i precedenti – si limita a dire che l’offerta televisiva deve essere prevalentemente composta, in determinate quote, da programmi classificabili in una serie di “generi”: intrattenimento, informazione generale e approfondimenti, sport, programmi per minori ecc. Ma i programmi rientranti in tali “generi” possono essere ricondotti al servizio pubblico o all’attività commerciale indifferentemente, non essendovi alcun elemento che li distingue. Qual è la conseguenza? È l’impossibilità di “assicurare che le risorse pubblichesiano utilizzate esclusivamente per l’assolvimento del servizio di natura pubblicistica e, dunque, che tale forma di finanziamento non vada ad alterare il normale gioco della concorrenza nel mercato della raccolta pubblicitaria su mezzo televisivo”.

È più chiaro ora il motivo per cui si può parlare di competizione “sussidiata” dello Stato? Ed è lo stesso motivo per cui, non senza una discutibile leggerezza, la Rai si assume il rischio di pagare compensi spropositati, potendo comunque contare sul canone dei contribuenti. E così si torna al punto di partenza.

La trasparenza è la soluzione? Sicuramente non lo sono opacità ed omissis. La vicenda esposta, per alcuni profili, ricorda quella dei concessionari autostradali; e, anche in questo caso, una istanza ex Foia si scontrerebbe contro una serie di paletti. Del resto, se – come visto – manca la volontà politica di cambiare un sistema opaco, anche le leggi in tema di disclosurevengono elaborate definendo limiti precisi: tutto si tiene, come sempre. A proposito di volontà politica, non era stato detto che dalla Rai sarebbero messi fuori i partiti? Certo, era stato detto. Ma era un altro format, anzi, un’altra sceneggiata.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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