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Essere un altro #15

Immagina che uno sconosciuto, entrato in casa tua, dimostri di poter contestare la tua identità.

Chi è? Cosa vuole ottenere? Come riesce a manipolare le informazioni sulla tua vita? Ma soprattutto: tu chi sei?

Un romanzo a puntate (capitolo 15) sulla fragilità dell'identità nell'era di Internet.

Scritto da Osvaldo Duilio Rossi, dai consigli di Mario Pica.

 

Essere un altro #15

La vita di strada è la stessa in tutte le città del mondo: battone, spacciatori, barboni, ladri, tossici, teppaglia annoiata, gente che si arrangia come può… centinaia di occhi scrutano l’ambiente in cerca di qualcosa da mettere sul tavolo per cena o solo per passare il tempo, come faceva l’uomo primitivo e come fanno le bestie ogni giorno. La gente comune passa in mezzo a loro come per evitare il fango, adottando tutte le accortezze del caso: uscendo di casa solo di giorno, senza indossare collane, borse o orologi, portandosi tutto nelle tasche dei pantaloni, nel reggipetto o nei collant, spostandosi rapidamente da una bottega all'altra, pregando di non attirare l'attenzione di nessuno. La fede religiosa sorge in queste condizioni di vita.

Avevo letto un reportage di tre antropologi che erano partiti da un’università del nord per svolgere una ricerca in una borgata del sud, applicando alla spedizione un sistema di studio praticamente zoologico. Misero piede nel territorio come dei perfetti sprovveduti: una alternava lo sguardo tra una cartina stradale e il primo piano dei palazzi, in cerca di targhe segnaletiche mai esistite; un altro riprendeva un po’ di scorci e panorami con una videocamera portatile, oppure scattava dettagli fotografici di siringhe usate, saracinesche forate, cassonetti ribaltati e scheletri di automobili incendiate; l’altro, il primo ricercatore, si guardava intorno assorto nei propri pensieri.

Avanzavano a casaccio tra i viali, inebriati dalle letture di esploratori che avevano vissuto per settimane con tribù di cannibali, insetti mastodontici e parassiti dei genitali, tornando a casa un po’ acciaccati ma gloriosi, per sfornare tomi sul passato, fondamentali per le speculazioni del futuro. Le rimembranze accademiche gli impedivano di comprendere la realtà dei derelitti acquattati nell’ombra di cartone dei cantieri edili occupati – la forza popolare della fame e della rabbia che aveva interrotto il coito finanziario dei costruttori – oppure la violenza inappropriata dei figuri smilzi e male acconciati, senza denti, denutriti, che sbraitavano, si rotolavano tra la polvere e piangevano per implorare una dose di eroina; o lo sguardo lucido e dilatato di chi ne aveva appena consumata una; la bellezza sfasciata dei transessuali, ammaccati dalle botte e dal libertinaggio, che battevano più per piacere personale che per profitto, piuttosto per trovare un’occasione di dialogo.

Lo strano gruppo fu intercettato da un clan di rapper – rasati, vestiti con tute oversize, profumate di ammorbidente e appena stirate, adornati di ciondoli d’oro e piercing d’acciaio – che li accerchiarono borbottando e sparlando tra di loro, senza ancora sfoggiare le armi, che comunque si intravedevano tra gli elastici dei calzoni e l’inchiostro dei tatuaggi. I due pivelli con la videocamera e la cartina iniziarono a tremare; allora il professore, per calmarli, fece il suo mestiere di professore, come un pazzo. Disse rapidamente che era tutto molto interessante, incitando la ricercatrice a prendere appunti sull’episodio: «Ci stringono il cerchio intorno, come un branco di lupi, e impostano il petto in fuori come soldati. Formano due anelli concentrici di uomini: quelli più vicini si tolgono gli occhiali da sole, protrudono le teste verso di noi e tengono le braccia aperte; ci studiano, per inciso forse anche olfattivamente, e ci minacciano invitandoci con gesti ideosemantici (ironia); quelli nelle retrovie tengono invece i menti alti e le braccia conserte per separare, nascondere e proteggere dall’esterno il gruppo interno».

A questo punto immagino che i gangster avessero iniziato a sorridere, altrimenti il professore non si sarebbe azzardato a proseguire: «Sembrano rozzi e primordiali – in gergo si dice “coatti” – ma sono intelligenti: non rischierebbero la galera per gente insignificante come noi… tranne i drogati… quelli possono essere pericolosi perché agiscono senza considerare le conseguenze… quello con la felpa verde e i calzoni corti, per esempio, potrebbe comportarsi in maniera sconsiderata, ma i leader lo sanno e immagino che lo allontaneranno per studiare meglio la situazione, prima di prendere decisioni avventate».

Avvenne. Cinque ceffi spinsero lo strano trio da una parte, lontano dal resto del branco e lontano dai tossici scriteriati. Il ricercatore si agitò e perse gli occhiali nel tentativo di non perdere l’equilibrio, mossa che fece agitare i banditi. Il professore dovette allora continuare il suo monologo, senza pause, come se avesse a che fare con una tribù incapace di comprendere la sua lingua, e senza paura, ma con estrema curiosità, come se stesse dialogando solo con i suoi collaboratori: «Dovete dimostrare calma e rispetto, muovervi piano e guardarli con sottomissione. Il rispetto è tutto quello che hanno, da queste parti».
Il professore sapeva che, parlando del comportamento dei banditi, si stava sincronizzando con loro per carpirne la collaborazione e i favori?

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