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Essere genitori atei in Indonesia

Per un genitore non credente non è sempre facile dover crescere un figlio nei paesi occidentali, in teoria secolarizzati, ma dove la religione in alcuni contesti è ancora profondamente condizionante. Spesso ci si ritrova a dover affrontare situazioni imbarazzanti o difficili da gestire a scuola e nella società, se non vere e proprie discriminazioni. Se è vero in Italia, figuriamoci quanto può esserlo in paesi come l’Indonesia, dove l’islam ha una forte influenza, con tanto di repressione a colpi di sharia contro comportamenti ritenuti “immorali”.

E dove, sulla base dell’ideologia fondativa dello Stato (pancasila), sono riconosciute solo alcune religioni e non è possibile formalmente dichiararsi atei. Anzi, si rischiano pene pesanti, come successo al giovane Alexander Aan.

Anche in Indonesia però, come in altri paesi "insospettabili", e grazie alla diffusione della cultura e dei social network, gli atei cominciano a organizzarsi. Anche con gruppi di genitori su Facebook che cercano di affrontare insieme l’ostracismo e il rischio del carcere, ma anche di scambiarsi consigli ed esperienze su come crescere i propri figli in un ambiente difficile. Tra gli argomenti, si parla di quali scuole siano più laiche, cosa fare quando i parenti chiedono quale sia la formazione religiosa di questi bambini o quando ci sono festività.

Uno degli animatori del gruppo Facebook, A.F. Simanjuntak, proveniente da una famiglia protestante di militari, intervistato dal Jakarta Globe spiega i vari problemi che, con la moglie, deve affrontare. A parte le pressioni sociali per partecipare a riti in famiglia e a scuola, si pone il problema di non far sentire i figli estranei al contesto e lontani dai propri coetanei. “La sfida più grande è stimolare la costruzione del carattere dei bambini al di fuori dai dogmi religiosi che li circondano”, spiega, “non mi fraintendete, non stiamo modellando i nostri figli per farli diventare atei — sono liberi di scegliere la loro strada, anche quali persone che credono in Dio — ma dovrebbero essere critici, liberi e responsabili”.

Un giornalista, T. R., ha una moglie non atea ma musulmana “molto, molto liberale” e lui stesso a volte si presta ancora alle pratiche di preghiera per un senso di “unione” famigliare. Sono costretti a mandare la figlia, a causa dell’assenza di alternativa, presso una scuola religiosa. La bambina nei documenti è registrata come “islamica”. T. R. si preoccupa per la sempre più vociante componente degli integralisti islamici, con cui la generazione secolarizzata di sua figlia dovrà fare i conti. Come si sa, dove la religione è ancora molto condizionante, anche gli scettici sono spinti a ripetere pratiche tradizionali e a mandare i figli presso istituti religiosamente orientati.

Sono storie non tanto diverse da quelle che si ascoltavano anche da noi qualche decennio fa. E che talvolta si ascoltano ancora oggi. Se passi avanti sono stati fatti, è stato perché la laicità (nonostante l’opposizione cattolica) è diventato un principio riconosciuto dallo Stato e l’espressione della non credenza ha, per quanto faticosamente e parzialmente, cominciato a essere salvaguardata dalla legge alla stessa stregua delle credenze religiose. È bello vedere che qualcosa si muove anche in Indonesia, e ci farebbe piacere poter aiutare chi è più in difficoltà di noi.


 

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