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Esiste ancora la questione meridionale? (Parte III)

La prima parte dell’articolo è qui
La seconda è qui

Un regime a sovranità limitata
Per queste ed altre ragioni, il solco fra La Sicilia e il Paese si allargato. Il nuovo spazio è stato occupato da un sistema di potere arcaico, familistico, parassitario e mafioso che ha bruciato le migliori risorse e prodotto una classe dirigente consociativa, oscillante fra l’astrattezza politica e il gattopardismo più deteriore.
Un sistema opprimente che ha generato un regime a sovranità limitata che ha conculcato i diritti fondamentali dei cittadini, trasformandoli in favori da concedere in cambio di voti e/o di tangenti, e sfumato i doveri dei governanti.
 
E dire che il molto speciale Statuto di autonomia, che fa della Sicilia “una quasi nazione”, avrebbe dovuto garantire all’Isola il massimo dello sviluppo possibile.
A differenza di altre regioni autonome, quali la Val d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia, la stessa Sardegna, l’Autonomia siciliana non ha prodotto i frutti sperati, ha deluso le attese, ha subito una sorte infelice: in parte non attuata e in parte abusata, stravolta.
 
Alla base di tale distorsione, penso ci sia un equivoco mai chiarito che di tanto in tanto riaffiora: l’autonomia invece di uno strumento di autogoverno e di crescita civile ed economica, è stata concepita come un surrogato del separatismo, per erigere intorno all’Isola un recinto, una sorta d’anello di fuoco, dentro il quale esercitare uno spudorato dominio e bloccare di là del Faro (di Messina) le innovazioni, i cambiamenti provenienti dall’Italia e dall’Europa.
 
Un secolo di migrazioni
Di conseguenza, oggi vediamo una regione bloccata nel suo naturale sviluppo, avvilita dal clientelismo, dalla disoccupazione, dal lavoro nero, sfregiata dall’abusivismo edilizio e non solo.
 
Si vive una condizione per molti versi insopportabile, con la quale devono fare i conti i cittadini e gli imprenditori onesti, ossia la stragrande maggioranza della popolazione.
 
In primo luogo, i giovani ai quali resta una sola alternativa: adattarsi o fuggire. Una terza via non è praticabile. Si calcola che, nel quinquennio 2002-07, siano emigrati dall’Isola verso le ricche regioni del nord, almeno 150.000 giovani, in gran parte diplomati e laureati.
 
Ancora emigrazione! Per i siciliani il novecento è stato il secolo dell’emigrazione.
Sono partiti a milioni verso le più lontane contrade del mondo e insieme ad altri hanno scritto uno dei capitoli più drammatici della storia universale delle migrazioni.
 
Si sperava che col boom economico italiano l’esodo si sarebbe interrotto. Invece è ripreso, anche se- nel frattempo- la Sicilia è divenuta terra d’approdo e di (mala) accoglienza per centinaia di migliaia d’immigrati provenienti dal sud del mondo.
Oggi, con la recessione in atto, non sappiamo cos’altro potrà accadere.
 
Anche Platone se ne fuggì deluso
In questo clima di grave incertezza, molti si chiedono dove stia andando la Sicilia. Verso quale approdo, quale futuro? La risposta non è facile, anche se l’interrogativo non è più eludibile.
 
Il futuro è il grande assente nell’immaginario dei siciliani. Un po’ tutti ne avvertono la mancanza: chi parte e chi resta.
 
Eppure non si chiede un avvenire mirabolante, ma un futuro da normali cittadini europei, una prospettiva migliore di questo opaco presente.
 
Ai siciliani questo futuro è stato negato, rubato perciò preferiscono guardare al passato. Pensano e parlano al passato. Addirittura, nella parlata locale per indicare il futuro si usa il (verbo) presente.
 
Ostentano un orgoglio, talvolta smisurato, per il loro passato visto come una sorta di eternità volta all’indietro nella quale,come nota Pessoa “ciò che passò era sempre meglio”.

Ovviamente, questa assenza di futuro non è una devianza grammaticale, ma la spia di un disagio psicologico collettivo che nasce dall’esperienza storica e spinge i siciliani a rifugiarsi in un mondo sepolto, mitizzato, ritenuto, più a torto che a ragione, migliore dell’attuale. 
 
C’è chi chiama tutto ciò “pessimismo” inveterato, connaturato. Anche contro Leonardo Sciascia, per il quale la Sicilia era “irredimibile”, fu lanciata questa accusa che lo scrittore respinse con serena fermezza: “Come mi si può accusare di pessimismo se la realtà è pessima?” (3)

In realtà, non si tratta di un’inclinazione pessimistica dei siciliani, ma della percezione di un male oscuro che permane nel tempo, fin dagli albori della storia siciliana, già durante la splendida civiltà siculo- greca.
 
Significativa appare, a questo proposito, la “Settima lettera” di Platone (autentica o meno che sia) nella quale il sommo filosofo chiarisce le ragioni che lo spinsero a viaggiare, per ben tre volte e in condizioni drammatiche, da Atene a Siracusa per aiutare il suo discepolo Dione ad insediare in Sicilia la sua “Repubblica”.
Tentativi falliti, miseramente. Com’è noto, il filosofo, per salvarsi, fuggì precipitosamente dalla Sicilia, portandosi dietro l’amarezza della delusione patita: “Mi sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto…”
 
Insomma, anche nei tempi antichi la vita politica siciliana era piuttosto inquinata. Oggi la situazione è mutata, ma temo in peggio. Se Platone ritornasse per la quarta volta nella Trinacria avrebbe ben altro di cui lagnarsi.  
 
Cambiare si può, si deve
Per concludere. La Sicilia ha un grande bisogno di libertà e di un forte recupero della sua identità culturale e storica che, senza scadere nella velleità indipendentista, per altro dolorosamente sperimentata, ridia ai siciliani il senso della loro storia e quindi la responsabilità di costruire un futuro di progresso nella legalità.
 
Si può fare. Importante è partire, riavviare la ricerca e la cooperazione fra tutte le forze sane dell’Isola che resistono ed attendono un segnale di autentica liberazione.
 
Ma i siciliani desiderano il cambiamento? Talvolta parrebbe di no. Si accetta di vivere, rassegnati, in una società immobile, individualista che tende ad escludere i settori più problematici, compresi i suoi figli ventenni.
 
In realtà, la maggioranza dei siciliani non è contenta di tale condizione, anzi la vive nell’angoscia, come nell’attesa del crollo. C’è una contraddizione latente fra consenso politico e spirito pubblico che nasce dallo scetticismo verso ogni ipotesi di cambiamento, verso un sistema politico, affaristico e consociativo, tale da far della Sicilia una regione “senza governo e senza opposizione” (4).
 
Tuttavia, sperare si può, si deve. Anche attraverso una sorta di autocoscienza collettiva. Tutti devono riflettere sulle condizioni e le sorti future della Sicilia, ripensare le loro azioni. Tutti e di più. Anche i mafiosi, ossia coloro che rappresentano il “male assoluto”.
 
A questa gente, ferme restando le responsabilità penali, bisogna provare a chiedere di riflettere sugli errori e sugli orrori commessi, ponendosi dal punto di vista di chi li ha subiti, per capire il dolore degli altri e cambiare rotta.
Soprattutto dovranno meditare e cambiare registro tutti coloro che hanno abusato del potere loro conferito dalla legge e dagli elettori. Alla Sicilia bisogna offrire una nuova chance. Qualcosa si muove sotto la superficie di questo mare cupo e limaccioso. Si agitano insofferenze e fermenti di cambiamento, s’intravede come una linea di riscatto in emersione attorno alla quale aggregare e mobilitare forze e risorse in grado di spezzare il circuito dell’illegalità, per riacquistare il futuro.

NOTE:

3) Leonardo Sciascia “La Sicilia come metafora” (intervista di Marcelle Padovani), Arnoldo Mondadori Editore, 1979
4) A. Spataro in “La Repubblica” del 17/4/2004

La versione italiana dell’articolo apparsa, con altro titolo, sul n. 68 della rivista francese “Confluénces Méditerranée”, edizioni “ l’Harmattan”, Paris, febbraio 2009.

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