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Ero Said. Ero piccolo. Ero a Yarmouk

“Mi dispiace campo mio, ho macchiato i vestiti della festa”
“Non fa niente, luce dei miei occhi, il tuo cuore è pulito. Sii Said / Sii felice”.
“Felice Eid, piccolo Said”

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano).

Di tanti nomi, date, cause infami di decesso, a restarti dentro con più insistenza sono i dettagli. Arriva a volte un particolare che ti lascia una nuova, piccola ferita, e si aggiunge a quella più grande – inesorabile – dello scoprire che qualcuno è morto, o è stato ucciso. Mi è successo quando mi sono resa conto, per esempio, che Said era molto più piccolo di quanto non mi fosse sembrato nella prima foto. “Era piccolo”, l’ho ripetuto nella mia testa più di ogni altra cosa.

La prima frase che ho letto su di lui, anche quella mi ha ferito. Diceva “shahid qabla al iftar” (martire prima dell’interruzione del digiuno). A soffermarcisi un attimo, è una immagine terribile, dolorosa. Penso agli adulti intorno a lui, giunti a soccorrerlo, a chi tra loro non toccava cibo e acqua da tante ore e ha visto concludersi quella giornata di sacrificio così. E poi il particolare che mancasse solo qualche giorno alla festa per la fine del Ramadan, l’Eid, che tutti i bambini aspettano anche quando – o soprattutto allora – si trovano come Said in un’area sotto assedio.

Quanto l’avrà aspettata questo bambino, dopo tutto quello che la vita gli aveva già portato via? È stato talmente automatico, per me, volergliela restituire quell’occasione di festa, nell’unico modo a mia disposizione. Disegnarlo, adagiandolo su una delle altalene colorate tipiche di quel periodo. Fargli un ultimo regalo. Non avevo mai disegnato un bambino avvolto nel suo sudario, che il suo sangue ha macchiato. Ora so cosa si prova – fa male – e so anche quanto fosse necessario farlo. Ma quello che non saprò mai è cosa si prova ad essere lui.

Il piccolo Said Samir Adra è rimasto ucciso per via delle ferite riportate quando un colpo di mortaio è caduto sul campo palestinese di Yarmouk, a Damasco, nel corso di un bombardamento. Non ho potuto appurare da quale delle parti coinvolte (regime e milizie lealiste che assediano il campo dall’esterno; Jabhat al Nusra, Stato islamico, i combattenti palestinesi, Ahrar ash Sham all’interno) sia stato sparato: “Quel giorno la situazione era molto caotica, non abbiamo capito con certezza da dove sia arrivato quel colpo di mortaio, ma potrei dire che al 70% è arrivato da fuori il campo”, questo è quanto mi ha descritto un testimone.

Era il 13 luglio scorso. Non ho saputo dell’esistenza di Said se non quando gli è stata strappata. Quella che ho cercato di tirare fuori somiglia per me alla sua voce. Quella che avrei voluto ascoltare. Quella che dice più di quel che dice. E che io non dimenticherò più.

Ero Said. Ero piccolo. Ero a Yarmouk.

Poco prima dell’iftar.

Poco prima dell’Eid.

Tutti digiunavano. Qualcosa è caduto e mi ha colpito.

Mi hanno avvolto. Mi hanno messo nella terra.

Ho lasciato il campo, quello che sta sopra.

Ho raggiunto il campo, quello che sta sotto.

Ora sono sotto. Nella terra del campo.

È finito l’iftar.

È finito l’Id.

Non digiunano più. Qualcosa continua a cadere e a colpire.

I bambini hanno giocato sulle altalene.

Io non ho giocato.

I bambini hanno ricevuto regali.

Io ho ricevuto la terra.

La terra ha ricevuto me.

Ho ricevuto un telo verde e bianco.

L’ho macchiato dove sono stato colpito.

Sono ancora Said come lo ero.

Sono ancora piccolo come lo ero.

Sono ancora a Yarmouk come lo ero.

Solo una cosa è andata via col Ramadan.

È andata via insieme all’iftar.

È andata via insieme all’Id.

Era con me a Yarmouk.

Era piccola.

Era ciò che tutti chiamavano Said.

La mia vita.

Ero io.

“Si chiamava Said [felice, in arabo], ma non aveva proprio nulla a che fare con la felicità. Di questo bambino mi hanno raccontato tempo fa che sua madre l’ha lasciato ed è uscita dal campo. Mentre suo padre ha perso una gamba ed è diventato difficile per lui riuscire ad accudirlo. Lo ha preso con sé una donna che si è incaricata di educarlo, se ne è presa cura, di lui che aveva anche un difetto congenito alle mani.

Dal canto nostro, noi siamo riusciti a trovare qualcuno che lo adottasse e gli mandasse dei soldi per dei nuovi vestiti in occasione dell’Eid, ma ieri è caduto un colpo di mortaio e Said è morto. E così alla fine Said lo è diventato, “felice”… Dio, dagli un po’ di riposo. Dio, non gravarci di qualcosa di cui non sappiamo sostenere il peso”.

(testimonianza di S., attivista del campo palestinese di Yarmouk in Siria)

L’immagine in copertina è di un khan nel mercato di Damasco ed è presa dal sito Internet https://nbkassas.wordpress.com.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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