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E venne il tempo del Reality compact

Con il voto di giovedì alla Camera, il parlamento italiano ha definitivamente ratificato i trattati europei che istituiscono il Fiscal compact e lo European Stability Mechanism (ESM). Sono impegni che promettono di essere estremamente gravosi, soprattutto il primo, nella parte che prevede il rientro al massimo entro vent’anni della quota di rapporto debito-Pil eccedente il 60 per cento. Ma andrà davvero come previsto nel trattato?

Il dubbio è legittimo, pensando a come è stato rottamato il Patto di stabilità e crescita, per mano dei tedeschi a cui servivano mani libere per ristrutturare la propria economia, e non certo la camicia di forza del pareggio di bilancio. Aver imposto un deficit massimo dello 0,5 per cento del Pil in termini strutturali, cioè corretto per la fase del ciclo, è stata una misura di puro buonsenso, per evitare una stretta ancor più prociclica di quella che sta mandando in malora l’intera Europa. Resta il problema di capire chi e come calcolerà la misura strutturale di deficit, ma sono dettagli.

Abbiamo serissimi dubbi che la parte del Fiscal compact relativa al percorso di rientro del rapporto debito-Pil possa effettivamente essere realizzata, tanto sono proibitivi i numeri coinvolti. Ovviamente, se vi fosse crescita i target sarebbero realisticamente conseguibili, pur se estremamente severi. Tutto poggia sulla ignoratissima regoletta sul differenziale tra crescita economica e costo medio del debito. Nelle condizioni attuali, per contro, con un costo del debito in costante aumento a causa di un premio al rischio stratosferico, Italia e Spagna sono condannate a vedere crescere il proprio rapporto di indebitamento ed avvitarsi in una spirale mortale entro pochi mesi (o settimane), in assenza di uno scudo di risorse comunitarie illimitate, da porre in parallelo alle riforme di struttura.

Non abbiamo nulla del genere, come noto, ed alla resa dei conti manca davvero poco, con buona pace di alcuni acuti osservatori che di questa crisi non hanno capito nulla, da subito, eppure continuano a pontificare di cure letali per uscirne. Eravamo partiti lo scorso anno, con la richiesta di “normalizzare” la situazione ed alzare i tassi d’interesse. Soluzione eccellente per un crack pressoché immediato in una crisi finanziaria. E forse sarebbe stato meglio, anziché questo stillicidio. Oggi, con una condizione di mercati ormai non più funzionanti, si ipotizzano privatizzazioni su vasta scala quando al massimo potremmo aspirare ad un po’ di ingegneria finanziaria, e creare un veicolo finanziario riempiendolo di asset immobiliari statali da “valorizzare”, e tentare di collocarlo sui mercati, sapendo che ficcarne le quote nei portafogli degli italiani finirebbe con lo spiazzare l’allocazione del risparmio domestico, sottraendolo ad altri impieghi, non ultimo l’acquisto di titoli di stato, visto che i non residenti stanno sempre più tirando i remi in barca. Analoghe considerazioni si possono compiere per l’ipotesi di tagli di spesa per finanziare riduzioni di imposta: ma come si fa a non capire che, con questa congiuntura, anche i pochi tagli di spesa attuati servono per chiudere i nuovi buchi che la recessione scava nei conti pubblici? Mistero.

Ma l’assenza di realismo non colpisce solo molti osservatori di cose economiche bensì soprattutto la politica. I partiti non hanno mai smesso di fare castelli in aria, intessendo alleanze nell’aria e disfandole subito dopo, credendo di poter proseguire a farsi gli affari propri come se nulla fosse accaduto e stesse accadendo. Ignorando che il numero di gradi di libertà della politica, in questo contesto, è prossimo allo zero. A questo si somma il fatto che mercati ed istituzioni internazionali (e non solo le agenzie di rating) fanno una immane fatica ad immaginare, tra pochi mesi, un ritorno della politica partitante in questo paese. Potete ululare al vulnus democratico, ma così facendo vi mettereste dalla parte della spartitocrazia che ci ha portati a questo drammatico punto, pur se ampiamente aiutati dalla ottusità e dalla insipienza economica tedesca.

Anche per questo, oggi, sembrano esservi assai poche alternative ad una prosecuzione dell’esperienza ministeriale di Mario Monti, sorretto da una Grande coalizione non dissimile dall’attuale. Monti non è il Messia, sia chiaro, ma ha il pregio di portare con sé in Europa uno stock dell’unica materia prima che può impedirci di fallire, come stato: la credibilità. Ma al di là di questa, anche Monti ha un numero di gradi di libertà prossimi allo zero. Certo, in questo momento servirebbe un governo politico per decidere che fare di un welfare fallito, ma quello di Monti è un governo politico, molto più politico di quelli che lo hanno preceduto.

Avendo la consapevolezza che nulla sarà più come prima e che il paese uscirà a pezzi e fortemente impoverito, tra molti anni, da questa epocale resa dei conti. Perché siamo in guerra, e non c’è modo più brutalmente efficace per dipingere la situazione attuale del paese, sapendo (ma in quanti lo hanno capito?), che potremmo non aver ancora visto il peggio.

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