E’ natale, vi regalo Paolo Poli
Paolo Poli nei panni di Caterina de’ Medici
Se c’è una cosa che all’Italia non mancano, sono i bravi cabarettisti. Per fare solo pochi nomi (e ne mancano): la Smorfia, i Giancattivi, Paolo Villaggio, Daniele Luttazzi, Beppe Grillo, Luciana Littizzetto, Paolo Rossi, Antonio Albanese, Paola Cortellesi, Maurizio Crozza e il teatro dell’Archivolto, il trio Solenghi Marchesini Lopez, i fratelli Guzzanti, il primo Carlo Verdone, il primo Roberto Benigni. Poi, oltre a questi bravissimi, ogni tanto nasce un genio. Si tratta di una persona che si staglia, in modo chiaro e incontestabile, su coloro che reputiamo davvero bravi. E’ stato il caso di Eduardo de Filippo, Petrolini, di Ugo Tognazzi, di Totò, di Walter Chiari, di Giorgio Gaber, ed è ancora oggi il caso di Dario Fo, premiato col Nobel e (per fortuna) spesso nel cono mediatico italiano. Ma di questi geni assoluti ne abbiamo vivente almeno un altro, assai meno esposto mediaticamente, ed è il caso di Paolo Poli, classe 1929, artista e genio fiorentino, attore di teatro e cabaret, uomo capace sempre di pensare prima di parlare e di dire spesso cose utili e intelligenti, utilizzando quel garbo, quell’ironia e quel sense of humour - in una parola sola: quell’arte - in grado di intrattenere il proprio pubblico in ogni circostanza.
Repubblica pochi giorni fa lo ha intervistato e io ho trovato nelle sue parole un godimento raro sulla stampa. Il blog Old Compton Street, uno dei miei preferiti da sempre, ha trascritto l’intervista e ha lasciato il cappello introduttivo, che vi lascio pari pari anche io. Godetevi le parole e i pensieri di Paolo Poli, soprattutto se vi è sfuggita la copia di Repubblica. Prendetelo come il regalo di natale di OCS e di AdF. Vi ho anche sottolineato le parti assolutamente da ricordare a memoria.
Via Old Compton Street:
Il ridicolo, il patetico, il meschino, perfino il nero di questi sordidi anni diventano in lui leggerezza, grazia, ironia. Nessun artista come Paolo Poli conserva il talento di rendere tutto chic, nobile, spensierato. E il suo teatro metafisico, vitalmente immobile da cinquant´anni, ha la vocazione di trasformare il peggio in meglio: il bigottismo nello scoppiettante cult Rita da Cascia, le beghe di potere nel travolgente Caterina de´ Medici, la cultura alta in cultura pop come in ‘Aldino mi cali un filino’.
Nel 2009, a maggio, Paolo Poli compirà 80 anni. Il corpo è un po´ più stanco, ma in scena sorprendentemente è sempre il bel giovanotto che sgambetta, canta, si traveste e regala ancora le sue belle scoperte. Un tempo Niccodemi, Ada Negri. Ora un grande dimenticato come Goffredo Parise e i suoi Sillabari, la bella raccolta di storie minime che lo scrittore veneto scrisse per raccontare l´Italia, la gente comune.
Lo spettacolo sta girando da sud a nord, a Firenze fino a domani, a Torino dal 26, a Milano dal 14 gennaio, a Napoli dal 15 febbraio e poi a Roma dal 14 aprile, e dovunque non fa che pienoni. «Sono come Eduardo - dice serafico Paolo Poli - La gente dice: bisogna vederlo perché ha un piede nella fossa».
Le spiace?
«Ma no, porta buono. E poi mi guardi, sono un amore. Lavoro tanto e mangio poco: solo a pranzo come il cane, e la sera una banana. E chi ha orecchie per intendere...».
C´è da arrossire.
«Ma via, è come la carota che alle monache bisogna darla grattugiata... Sono classici. Mi creda: il sesso non è fra le gambe ma nel cervello».
E l´amore?
«A 80 anni??? Ormai ho solo affetti. Ho Lucia, mia sorella che per me è come un figlio. Io avevo 20 anni, lei 9. Le facevo i compiti, la portavo a scuola, una volta le tagliai i capelli come Ingrid Bergman in "Per chi suona la campana"... Le ho spiegato tutto sulla vita e sulle donne. Semplificavo. Come la mia mamma, che era un genio».
Perché?
«La mia mamma era una maestra montessoriana e quando in terza elementare una sua scolara si scoprì maschio, lei si limitò a dire: "invece del grembiulino bianco col fiocco rosa si metta il grembiulino nero col fiocco azzurro"».
A lei cosa diceva?
«La mia mamma credeva nella bontà della natura. Come Jean Jacques Rousseau credeva il bambino perfetto, sbagliata la società».
Dunque è vissuto tra gli allori.
«Quando io portavo a casa le ragazze - perché ho avuto anche quelle - lei diceva "Paolo non mi pare molto adatta per te. La prossima volta si fa una cenetta con quel ricciolino dell´altra volta"».
Che ne pensa del Vaticano che non depenalizza l´omosessualità?
«Ma chi se ne frega. Siamo rimasti solo noi in Italia a dargli ascolto. Perché? Perché è l´unico sovrano italiano. D´altra parte Gioberti diceva facciamo le Repubbliche con a capo quello lì... Ed ecco il risultato».
Le sembra meglio il ciclone Luxuria?
«L´ho incontrata una volta in albergo. Mi fa il portiere tutto eccitato: "C´è Luxuria". "O chi è", rispondo. Io lavoro negli orari della tv e quando finisco non son pantofolaio, mi piace vedere amici che fanno mestieri diversi. Quindi tornando a quella volta di Luxuria non so nemmeno perché è venuta a farmi tutte quelle tenerezze come fossi l´antesignana portafiaccola della maratona dei froci».
A lei non piacciono le gay parade?
«Mah, dico solo che un po´ di perversione piace anche al marito sposato. Amici travestiti mi hanno confidato che anche ai camionisti non dispiace frugare e trovare che lì c´è una sorpresa. L´infedeltà se è speciale, non fa che bene».
Ci stiamo avvicinando all´umanità di Parise.
«Parise lo conobbi negli anni Sessanta quando ero a Roma a casa di Laura Betti. L´ho conosciuto con Pasolini. Erano questi professori veneti che negli anni del boom a Roma scoprirono un nuovo linguaggio: Pasolini quello dei Ragazzi di vita, Parise la semplicità dello scrivere. E i Sillabari ne sono la prova».
Quali ha scelto per lo spettacolo?
«Anima, Bacio... ho scelto quelli che mi sembravano riducibili per il teatro e per il pubblico ormai abituato alla tv, pigro, Mediaset. Un pubblico per Berlusconi che è bravissimo».
In che senso?
«In queste cose: tv, case editrici, giornali. Certo fa politica, ma in Italia piace così. Vi ricordate quando chiedevano a Cicciolina come stavano le finanze italiane, e le barzellette ad Andreotti? Per questo pubblico io ho scelto, tra gli altri, il racconto sulla spiaggia dei nudisti, Mistero, dove c´è chi ha la vena straripante bluastra e lucida, chi un bottone di carne occhieggiante tra i peli del pube... Le cose pecorecce che il pubblico gradisce, ma col linguaggio di Parise, fresco, garbato».
La sua semplicità era molto profonda.
«Certo. Come è più profondo il Leopardi dell´Infinito che della Canzone all´Italia».
Perché Parise ha scontato a lungo l´etichetta di autore disimpegnato?
«Perché non divideva il mondo in buoni e cattivi. Io stesso quando vedo un ennesimo film coi cattivi tedeschi mi annoio, perché mi ricordo del tedeschino buono che mi dava le fette di pane, o il capitano tedesco con cui ballavo il valzer».
Non li aveva in odio?
«Non me ne fregava niente. Sono stato precoce ma su altre cose. I miei genitori erano poveri ma compravano libri, così a scuola ho cominciato dalla terza, perché sapevo leggere e far di conto, come Pinocchio. Mio padre mi trattava come un grande e ho vissuto molto accanto a lui».
Come mai?
«In quarta mio padre si ammalò di turbercolosi e andammo sul lago di Como. Noi due. Passai un anno con lui, si parlava, si giocava, si rideva. Tra noi c´era molta intimità. Credo di essere diventato frocio lì. Per amore».
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