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Dopo vent’anni ancora nessuna certezza sulla tragedia della Moby-Price che causò la morte di centoquaranta persone

Grande commozione domenica in Catterale a Livorno tra i parenti dei deceduti per la messa in suffragio dei loro cari.

Sono trascorsi vent'anni da quel dieci aprile del 1991 quando verso le dieci e mezzo di sera il traghetto della Navarma, il Moby Prince, diretto in Corsica appena uscito dal porto di Livornò s'imbattè in un fitto banco di nebbia ed andò a sbattere contro la petroliera dell'Eni Agip Abruzzo ancorata in rada. Subito dopo la collisione il Moby Prince prese fuoco ma venne soccorso con colpevole ritardo, seppur fosse stato il primo a lanciare il "May Day" alle ventidue e venticinque di quella dannata sera.

Un minuto più tardi fu il comandante Renato Superina dell'Agip Abruzzo a chiedere aiuto lamentando che la propria nave stava prendendo fuoco, nelle stive aveva ottantacinquemila tonnellate di greggio ed i soccorsi furono prontamente inviati verso la petrliera. Solamente una volta sul posto i piloti del Porto di Livorno e gli equipaggi della capitaneria labronica si accorsero che la vera tragedia si stava consumando non a bordo della nave dell'Eni ma sul traghretto diretto in Corsica, ormai dilaniato dalle fiamme. Centoquaranta persone tra vacanzieri e membri dell'equipaggio morirono bruciati vivi, solamente il mozzo Alessio Bertrand, che oggi vive ad Ercolano in provincia di Napoli, si salvò. Afferma di non ricordarsi nulla di particolarmente importante di quella sera.

L'ultima inchiesta sul dramma, condotta tre anni fa da tre Sostituti Procuratori della Procura labronica si è conclusa con l'archiviazione perché della tragedia fu incolpato il comandante del traghetto, Ugo Chessa. Il figlio del capitano Chessa, Angelo medico chirurgo nel capoluogo della Toscana tirrenica, però rigetta fermamente le accuse rivolte al padre e si chiede come mai non fu fatta chiarezza quella notte circa l'esatta posizione in rada a Livorno non solo dell'Agip Abruzzo ma anche di altre navi come alcune imbarcazioni militari della Nato che negarono la propria collaborazione agli investigatori labronici. Un po' come successe dopo il disastro aereo di Ustica, insomma.

Domenica mattina, comunque, i parenti di molte delle vittime di quella che è passata alla storia come la più grave tragedia della marineria civile italiana si sono stretti al ricordo dei loro cari nella Cattedrale di Livorno per una messa in suffragio. La loro commozione e la loro rabbia erano palpabili. "Giustizia chiediamo" dice il sugnor Rispoli presidente del Comitato parenti delle vittime della "Moby Prince" a cui fa da eco Giacomo Sini, pure lui appartenente al Comitato che stigmatiza il fatto che a vent'anni dall'incidente non si sia ancora giunti ad una verità plausibile. I parenti delle vittime, infatti, rifiutano la ricostruzione dei fatti operata tre anni fa dalla Procura di Livorno. Loro sono propensi a non gettare la croce addosso al comandante Chessa e, piuttosto, puntano il dito sul ritardo nel soccorrere la "Moby Prince". "Se si fosse intervenuto a tempo, sarebbero state salvate molte più vite", aggiungono.

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