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Disoccupazione: perché il calo non è una buona notizia?

Pubblicati i dati del mercato italiano del lavoro di aprile. Si conferma, accentuandosi, quanto visto nel mese di marzo. Speriamo almeno che questi numeri servano per alfabetizzare politici e giornalisti sulla fallacia del tasso di disoccupazione preso a “valore facciale”.

Intanto, il calo degli occupati: sono 274 mila nel mese, imputabili ai tempi indeterminati per 76 mila, ai contratti a termini per 129 mila, al lavoro autonomo per 69 mila. Sui tempi indeterminati in calo, e fermo restando il rumore statistico del dato mensile, è possibile siano effetti di pensionamenti o di cessazioni di attività, oltre che di licenziamenti anteriori al blocco. I tempi determinati scontano in tempo reale la crisi, e sono lasciati scadere. Con buona pace di misure tardive come la sospensione del decreto Dignità sino a fine agosto, per quanto riguarda l’obbligo di causale.

Il dato più eclatante, ma purtroppo scontato, è l’esplosione di inattivi: più 746 mila nel mese, che si accoppia al crollo di persone in cerca di occupazione, a causa del lockdown: meno 484 mila nel mese.

Il combinato disposto di questi numeri è un tasso di disoccupazione che crolla al 6,3%. Come vi ripeto ormai da anni, il valore di questo dato è nullo, se non analizzato alla luce delle dinamiche di riattivazione ed inattività. Forse ora, in questi numeri devastanti, il concetto apparirà più chiaro. Quanto sono ottimista, vero?

Analizzando le variazioni tendenziali di occupazione, cioè quelle annuali, si scopre che la contrazione di occupazione è di ben 497 mila unità. Di esse, ben 480 mila sono imputabili ai tempi determinati, che hanno scontato il raffreddamento congiunturale che era in atto prima della pandemia ma anche la giostra infernale del decreto dignità, un feroce aumento di turnover per molti tempi determinati ma un effetto netto di riduzione dell’occupazione complessiva. A latere, notevole anche la moria di occupati tra gli autonomi. Tutto questo per fare un bel trenino di nuovi “posti fissi”.

Che succederà, da qui in avanti? Intanto, due parole sul blocco dei licenziamenti. Non mi scandalizza: è simile a quanto fatto da altri paesi nelle more dell’emergenza epocale che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. La motivazione è che, essendo in vigore la cassa integrazione in deroga, è preferibile non licenziare. E sin qui, nulla quaestio, al netto di altre disfunzioni.

Il problema vero, potenzialmente devastante, arriverà alla riapertura. Con le lentezze inevitabili imposte dalle prassi di distanziamento ed i rilevanti oneri della messa in sicurezza. Il governo britannico, per approssimazioni successive, sta già cercando di mettere la parola fine alle eccezionali erogazioni sociali. Dovrebbe accadere nel mese di ottobre. Anche noi, come qualsiasi altro paese, dovremo passare da una programmazione simile.

Tutto si giocherà sulla resilienza di imprese e consumatori, e su misure legislative aggiuntive che potrebbero lastricare di buone intenzioni la strada dell’inferno, ponendo nuovi ostacoli ed attriti aggiuntivi alla ripresa, e costringendo alla capitolazione molte imprese.

Un paese come l’Italia, dove impera ed impazza una forma virale di socialismo surreale, e con una pubblica amministrazione che non riesce a porsi a supporto della crescita economica, rischia di perpetuare la propria peculiarità di paese produttore di riprese a forma di L, e di una isteresi (sclerotizzazione) corrosiva.

Il tutto mentre inganniamo il tempo e noi stessi con discussioni sui massimi sistemi ideologici. In un momento come questo, crescono le suggestioni di “rifondazione” del modello socio-economico del paese. E per l’Italia, da sempre immersa in una dimensione onirica tossica, ciò può essere davvero letale.

 
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