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Disoccupazione adulta: intervista a Stefano Giusti di Atdal Over40

Luchino Galli intervista il Dottor Stefano Giusti, fondatore di Associazione Tutela dei Diritti dei Lavoratori Over 40.

Dottor Giusti, quando nasce l’associazione Atdal Over 40, e con che finalità e obiettivi? Quali iniziative ed eventi avete realizzato e quali sono in programmazione?

L’associazione Atdal Over 40 nasce a Milano nel 2002 su iniziativa di Armando Rinaldi, con base volontaria, per sensibilizzare le istituzioni sul problema dell’espulsione dei lavoratori in età matura. Problema che ne porta un altro con sé, quello della difficilissima se non impossibile ricollocazione di queste persone. Il nostro slogan (“Troppo vecchi per lavorare, troppo giovani per la pensione”) riassume precisamente il cuore del problema e il nostro pensiero.

In questi anni abbiamo realizzato tante iniziative, da quelle di pubblicizzazione del problema tramite convegni e seminari sul tema, a quelle più pratiche di servizio.

In tre occasioni ATDAL è stata ricevuta al Senato ed ha presentato relazioni sul fenomeno dei disoccupati over-40 e una serie di proposte di intervento legislativo. Dalle nostre proposte in tema di diritto al lavoro è nato un Disegno di Legge a firma del Sen. Pizzinato, mai discusso nella passata legislatura e riproposto in seguito al Senato dal Senatore Giorgio Roilo e alla Camera dall’Onorevole Gloria Buffo. Nel corso della sua attività ATDAL ha promosso raccolte di firme su specifiche Petizioni ai Presidenti di Camera e Senato. Le oltre 8.000 firme raccolte sono state consegnate nel maggio del 2003, aprile 2004 e ottobre 2006.

Poi abbiamo attivato iniziative pratiche come gli sportelli di orientamento e sostegno, ed accordi con enti e istituzioni per corsi di formazione mirati direttamente al ricollocamento degli over-40. Va detto che noi non siamo e non vogliamo essere un’agenzia di collocamento, ma un punto di riferimento per tutti coloro che vivono questo problema e sono abbandonati dalle istituzioni e da chi, fino al giorno prima, ha usufruito di loro come forza lavoro sia manuale che intellettuale. In futuro ci riserviamo di continuare su questa strada che fino ad oggi ha ottenuto se non altro il risultato di aver fatto parlare di questo problema sempre nascosto. In programma abbiamo tante iniziative soprattutto pubbliche per sensibilizzare al problema.

La disoccupazione adulta è un fenomeno sociale che sconvolge la vita delle persone, e ne devasta le famiglie; quanti sono i disoccupati adulti in Italia?

Nessun ente di ricerca ha mai fatto una campionatura esatta su questo fenomeno. I dati Istat non contemplano questa fascia e quindi i numeri che circolano sono quelli che vengono raccolti da enti e istituzioni locali (soprattutto regionali) che cercano di definire quantitativamente il problema e dai dati che faticosamente riusciamo a mettere insieme nelle nostre strutture territoriali. Si può tranquillamente affermare che la disoccupazione Over-40 riguarda almeno 1,5 milioni di persone. E ovviamente a cascata, dietro questo dato ci sono i nuclei familiari. Fare il calcolo di cosa significhi questo dramma sociale è abbastanza semplice anche se le istituzioni non vogliono riconoscerlo ufficialmente…

Quali sono le dinamiche e i caratteri della disoccupazione adulta?

L’insorgere del problema della ricollocazione lavorativa degli “over-40” risale alla metà degli anni ’90, anche se la questione ha cominciato a farsi sentire in misura più grave e patologica con l’arrivo del nuovo millennio. Strutturalmente il fenomeno nasce come maldestra conseguenza di una delle varie e cicliche enunciazioni teoriche di organizzazione aziendale, volte a ridefinire equilibri economici sempre nuovi e spesso contrari ai precedenti. In questo caso la matrice del fenomeno è riconducibile alla teoria dell’ “Old Out-Young In”, tradotto letteralmente “i vecchi fuori, i giovani dentro”. È una teoria organizzativa che viene dall’altra parte dell’Oceano, da aree economiche come quelle americane, giapponesi e sud-coreane e naturalmente prende piede in Europa con circa dieci anni di ritardo, quando in quei paesi viene già vista con sospetto e più volte rivisitata e modificata.

Come tutte le teorie importate belluinamente, non tiene conto della diversa situazione cultural-economica dell’Europa e nel nostro caso dell’Italia, ma diventa in breve tempo una moda, una parola d’ordine aziendale da tutti accettata e vista come funzionale a chissà quale sviluppo. Ovviamente mai nessuno spiega effettivamente perché debba funzionare e su quali basi oggettive, però la si accetta come indispensabile e funzionante e se ne giustifica l’uso con il solito gioco di prestigio tautologico per cui la si applica perché funziona e funziona in quanto si applica (!) ignorando completamente il salato prezzo sociale che porta con sé. La sua conseguenza più grave è la difficoltà (per non chiamarla impossibilità) di ricollocazione per tutta questa fascia di lavoratori discriminata in tutte le maniere. Basta guardare i giornali specializzati e scoprire che oltre il 60% degli annunci contiene limiti di età compresi tra i 25 e i 35 anni. Limiti che oltre ad essere pazzeschi da un punto di vista sociale sono anche fuorilegge. Esiste infatti un Decreto Legislativo del 9 luglio 2003, n. 216 "Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro" pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 187 del 13 agosto 2003 che all’articolo 3 recita: 

“Il principio di parità di trattamento senza distinzione di età si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato con specifico riferimento alle seguenti aree: accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione…”

Insomma è illegittimo discriminare in base all’età e mettere un limite nelle offerte di lavoro, ma lo fanno quasi tutti, aziende multinazionali o piccole società, agenzie per il lavoro e grandi società di head hunting. Naturalmente non esiste nessun garante o figura che faccia rispettare questa legge dello Stato. L’anno scorso il Senato della Repubblica ha bandito un concorso per l’assunzione di personale impiegatizio. Tale concorso, in barba alle leggi vigenti, conteneva il limite di età fissato tra i 18 ed i 40 anni.

È chiaro che non basta togliere una riga con scritto “età compresa tra x ed y” per eliminare il problema ma riuscire a far rispettare le leggi sarebbe già un buon punto di partenza per arrivare a considerare il lavoratore Over-40, sia uomo che donna, ancora un protagonista attivo. Oltretutto, paradosso nel paradosso, in Italia come in tutti i paesi industrializzati, la lunghezza del periodo scolastico formativo anche per le posizioni medie, si prolunga ormai fino quasi ai trent’anni (laurea, + master + stage), in presenza di una dichiarata obsolescenza professionale e conseguente rischio licenziamento, che si presenta non appena si toccano i 40!

In questo deserto sociale, le uniche forme di assistenza vengono da organizzazioni di volontariato, spesso costituite da persone che hanno vissuto questo dramma e che affrontano in prima istanza questo problema. Fino a quando le istituzioni continueranno a far finta di niente?

E’ un dato di fatto che la disoccupazione adulta sia misconosciuta: sottaciuta dai mass media, ignorata dalla politica e trascurata dagli stessi sindacati; quali le ragioni e i motivi?

Non c’è un’unica causa ma diversi fattori concomitanti. I mass media spesso peccano di superficialità e non fanno lo sforzo di diversificare e approfondire i temi. Preferiscono cavalcare le mode e parlare di “disoccupazione giovanile” come se a 35 o 40 anni si fosse anziani. I sindacati hanno una visione del problema obsoleta: loro difendono principalmente il lavoro, chi lo perde esce fuori dai loro schemi e non viene troppo considerato. Oltretutto molti dei loro dirigenti pensano ancora al disoccupato over 40 su stereotipi superati: non sa usare il computer, non conosce l’inglese. Non vedono o a volte fanno finta di non vedere la trasformazione del problema. La politica, beh, che dire, ormai politici e gruppi di potere partitico ragionano solo per numeri: i disoccupati Over-40 per ora non riescono a fare lobby, a far capire il loro peso politico ed elettorale. Quando lo faranno i politici li inseguiranno col cappello in mano… Su quest’ultimo punto poi si inseriscono anche le “responsabilità” dei disoccupati. Spesso molte persone che hanno questo problema, specie quelle che non sono state estromesse da grandi ristrutturazioni industriali tipo Alitalia ma hanno perso individualmente il lavoro, quasi si vergognano della loro situazione, ne fanno una colpa non si manifestano pubblicamente. Così facendo rendono quasi impossibile far emergere la reale portata del problema.

Le persone discriminate per motivi anagrafici nel mercato del lavoro sono sempre più giovani: over 50, over 40, ed ora anche over 35. Perché questa deriva, e dove ci porterà?

La deriva rischia di essere inarrestabile e di finire per travolgere tutta la popolazione lavorativa e rendere i luoghi di lavoro ingestibili. Questo principalmente per via di alcune scellerate politiche del lavoro che permettono sgravi fiscali per fasce di età giovanili rendendo così quasi impossibile la ricollocazione dopo i 35 anni, Le stesse politiche che hanno usato la flessibilità per destrutturare il Diritto del Lavoro creando un universo di precarietà che inizia in età giovanile e continua in maniera sempre più esasperata con l’aumentare dell’età, finendo per emarginare chi perde il lavoro dopo i 40 anni. Tutto questo mentre gli stessi politici su altri tavoli tentano in tutti i modi di allungare l’età pensionabile. Una contraddizione insanabile: tanto per fare un esempio pratico citiamo Montezemolo che di Confindustria è stato presidente nel periodo 2005-2007. Da presidente degli industriali si batteva strenuamente per alzare l’età pensionabile e quindi per trattenere più tempo possibile i lavoratori in azienda. Nello stesso periodo come membro del CdA della Fiat si prodigava altrettanto strenuamente per ottenere una serie di pre-pensionamenti per i lavoratori della suddetta azienda, quindi mandarli a casa il prima possibile!

Non manca all’appello delle contraddizioni l’attuale presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che ha recentemente dichiarato che “sull’innalzamento dell’età pensionabile dobbiamo seguire gli altri paesi dell'Unione Europea". Naturalmente nelle sue aziende la Marcegaglia se ne guarda bene dall’applicare le strategie nord europee di incentivazione all’occupazione e persegue invece la politica più in voga degli ultimi decenni, quella che vede estromettere i lavoratori in età matura a favore di quelli più giovani. Anche lei ci dovrebbe anche spiegare come pensa che queste persone possano arrivarci alla pensione, considerando che per loro è difficilissimo ritrovare lavoro e che quasi nessuno ha un qualche sostegno al reddito. Ma forse il piano è proprio questo; a forza di allungare l’età pensionabile si spera che il lavoratore alla pensione non ci arrivi proprio così da risolvere il problema dei conti alla radice, non pagandole proprio.

La disoccupazione, nella fascia d’età tra i 30 e i 49 anni, è in costante crescita; per l’economista Francesco Daveri “potremmo assistere a una nuova emergenza, quella di un forte aumento di disoccupazione tra gli over 50” (La Stampa, 24 maggio 2011). A Suo avviso, quali politiche vanno attuate per contrastare efficacemente la disoccupazione adulta?

Atdal su questo ha una politica propositiva ben chiara con proposte mirate a combattere questa situazione. Atdal 40 ritiene che il discorso di un reddito sganciato dal lavoro debba essere una delle soluzioni con cui affrontare le nuove forme di occupazione precaria e disoccupazione strutturale. Per questo avanza alcune proposte operative:

A) Istituzione di una indennità di disoccupazione generalizzata per tutti coloro che si trovano privi di lavoro, calcolata in percentuale su l’ultimo salario percepito e comunque tale da garantire un reddito dignitoso e per un periodo di tempo idoneo a sostenere la ricerca senza angoscia di un nuovo lavoro;

B) L’ indennità di disoccupazione deve entrare in vigore anche per coloro che svolgono lavori precari nei periodi di inattività e deve prevedere la corresponsione dei contributi previdenziali figurativi;

C) Accanto all’indennità di disoccupazione occorre prevedere un sostegno economico per la copertura dei versamenti previdenziali volontari per disoccupati over-50 che abbiano maturato almeno 30 anni di versamenti contributivi o, in alternativa, prevedere percorsi di accesso anticipato alla pensione per disoccupati over-50 di lunga durata, considerati non più ricollocabili, eventualmente prevedendo una trattenuta sulla pensione pari ai contributi che dovrebbero ancora versare fino al raggiungimento dei requisiti anagrafici o contributivi di legge.

Nell’attuale contesto economico, la disoccupazione non è una colpa: persone e famiglie la subiscono. Come Lei puntualizza: “la società del lavoro si è trasformata e il lavoro stesso in alcuni casi tende a scomparire o quanto meno a riguardare la vita di sempre meno persone”. Tuttavia, molti vivono la disoccupazione con rassegnazione e vergogna, rinunciando a denunciarla e combatterla, accentuando il proprio isolamento. Dottor Giusti, cosa può convincere il disoccupato a cambiare atteggiamento e modificare il proprio comportamento?

Come dicevamo anche prima, solo convincendosi sull’utilità di far emergere le proprie situazioni, le proprie storie. Se questa massa per ora composta solo di individui che tendono ad agire isolatamente, saprà identificarsi e sentire una sorta di coscienza collettiva allora verrà anche considerata all’esterno. Poi, in termini anche utilitaristici, “fare rete” con altre persone nella stessa situazione, significa avere più possibilità di avere accesso a fonti utili per la ricollocazione. Insomma solo uscendo fuori dall’isolamento si ha la possibilità di far sentire la propria voce. 

Lei scrive: “nel nostro strano paese il 69% dei disoccupati non ha nessun accesso a forme di sostegno reddituale né di ammortizzatore sociale. Secondo l’ultimo monitoraggio del Ministero del Lavoro, gli ammortizzatori sociali italiani coprono solo il 31% dei disoccupati con sussidi di varia natura. Gli altri devono arrangiarsi da soli”. Infatti, come ha evidenziato la CGIA (Associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre, il welfare italiano è caratterizzato da un pacchetto di ammortizzatori sociali riservato a determinate categorie di lavoratori: cassa integrazione ordinaria, straordinaria, mobilità, etc.; questi ammortizzatori intervengono - osserva il segretario Giuseppe Bortolussi - “prima della perdita definitiva del posto di lavoro”, “prima che il rapporto tra lavoratore e impresa sia compromesso definitivamente”. Inoltre, le stesse indennità di disoccupazione sono temporanee e il loro importo è inversamente proporzionale al tempo di durata dell’inattività lavorativa! Tuttavia in Italia, come Lei precisa, “tra coloro che perdono il lavoro, solo il 25% lo ritrova entro i primi sei mesi, per gli altri le attese oltrepassano anche l’anno, con esiti ovviamente disastrosi sotto tutti i punti di vista”. In un tessuto socio economico caratterizzato da alta disoccupazione e precarizzazione crescente, diffuse e strutturali, è ormai prioritaria la riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, per assicurare protezione ai tanti (troppi) che oggi ne sono esclusi! Come realizzarla, e con quali risorse?

In Italia ogni volta che si parla di reddito di sostegno, di cittadinanza, o di qualsiasi altra forma di supporto, ci si scontra subito col discorso del debito pubblico e con l’impossibilità di mettere mani a riforme strutturali. Recentemente la Banca Mondiale ha calcolato che il costo della corruzione in Italia si aggira intorno ai 50 miliardi di Euro. L'evasione fiscale, combattuta nel nostro paese sempre a parole ma raramente nei fatti se non con scudi e condoni tesi a favorire chi aveva già allegramente evaso o esportato capitali all’estero, sfiora i 250 miliardi di Euro. Volendo, i soldi per una riforma veramente rivoluzionaria ci sarebbe dove prenderli, senza contare poi che in Italia la spesa sociale (al netto della spesa pensionistica e delle indennità di disoccupazione riservate a pochi) è una delle più basse d’Europa, pari al 9,6% del Pil. Il problema dei soldi è un falso problema.

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