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Diritto alla ribellione. La continuità dello Stato

Dal 1890 al 1930, grazie al Codice Zanardelli, le norme per oltraggio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale non si applicano, se il pubblico ufficiale ha causato la reazione abusando del suo potere. La prassi delude le attese, ma il problema storico del diritto di resistenza trova un riconoscimento legale, che il codice Rocco cancella e la Costituente ripropone. Il secondo comma dell’articolo 50, oggi 54, firmato da Dossetti, afferma, infatti, che «quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere dei cittadini».

Dopo le violenze di Crispi, la reazione del 1898, la «dittatura parlamentare» di Giolitti e il fascismo, il problema è così sentito, che i conservatori battono l’antifascismo «rosso» solo perché la DC vota con repubblicani e liberali, ma il dibattito è ancora attuale. Si prendano per esempio le parole lontane da un’assemblea nata dalla Resistenza con cui Orazio Condorelli mette agli atti il suo no: «questo diritto di resistenza, che si manifesta attraverso insurrezioni, colpi di Stato, rivoluzioni, non è un diritto, ma la stessa realtà storica […]. Sono fatti logicamente anteriori al diritto».

Grazie alla «continuità dello Stato», uomini come Condorelli, internato dagli Alleati per la sua vicinanza al partito fascista, sono inseriti nel cuore della repubblica antifascista. Invano il democristiano Umberto Merlin ricorda che anche per San Tommaso «il regime tirannico non è giusto, perché non è ordinato al bene comune ma al bene privato di colui che governa. Per tale ragione, il sovvertimento di questo regime non ha carattere di sedizione».

Benché il Vaticano, con i Patti del Laterano, abbia accolto il codice Zanardelli, i cattolici ripudiano Tommaso e i liberali tradiscono se stessi. Spiegando il suo voto contrario, infatti, Colitto assolve inconsapevolmente i carcerieri di Pertini e Gramsci affermando che «qualunque sia il motivo da cui un cittadino possa essere indotto a disobbedire alla legge, legittimamente emanata, quel cittadino deve sempre essere considerato un ribelle e trattato come tale».

E’ Mortati a chiarire il senso del no: il dissenso non è sul merito del problema, ma sul metodo. Infatti, afferma il giurista, «non è al principio che ci opponiamo, ma all’inserzione nella Costituzione di esso, e ciò perché a nostro avviso […] mancano nel congegno costituzionale i mezzi e le possibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione al diritto e quando invece questa sia da ritenere illegittima».

Il comma non passa, ma la Costituente, che senza la Resistenza non sarebbe nata, non ritiene inammissibile il diritto alla resistenza contro l’oppressione, manifestazione del principio di quella sovranità popolare, che il divieto di ricorrere alla resistenza quale ultimo mezzo per ristabilire la legalità violata svuoterebbe di contenuti reali.

Mancano studi seri sul prezzo che la repubblica paga al principio della «continuità dello Stato», ma sappiamo che le conseguenze furono devastanti. Persino gli scienziati firmatari del Manifesto sulla razza conservano, infatti, cattedre e peso sociale. Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale della razza, diventa Presidente della Corte Costituzionale, dove c’è il camerata Luigi Oggioni, Procuratore Generale della Repubblica di Salò. Non va peggio a Carlo Aliney, autore della legislazione razziale e capogabinetto all’Ispettorato della razza, promosso Consigliere di Corte d’Appello, Procuratore della Repubblica e giudice di quella Cassazione, di cui è Procuratore Generale Vincenzo Eula, che ha condannato Pertini, Parri e Rosselli per l’espatrio di Turati. In quanto alle forze dell’ordine, il capo dell’Ovra, Guido Leto, diventa direttore tecnico delle scuole di quella polizia che conferma tutti i funzionari fascisti, anche Marcello Guida, carceriere di Pertini e Terracini a Ventotene. A Milano, nel 1969, è lui il Questore, quando la pista fascista per la strage di Piazza Fontana è ignorata e Pino Pinelli «suicidato». Perché stupirsi se, dopo la vergogna di Genova nel 2001, De Gennaro, capo della polizia ai tempi della Diaz, è nominato sottosegretario di Stato con delega alla sicurezza e Spartaco Mortola, che a Genova guida la Digos, diventa Questore e comanda le cariche in Val di Susa?
In quanto alla Magistratura, mai epurata, si copre di vergogna, avviando una persecuzione feroce contro i partigiani; il 30 giugno 1946, sette giorni dopo la sua emanazione, ha applicato l’amnistia Togliatti a 7106 fascisti e 153 partigiani. Secondo dati approssimati per difetto, si giunge a 2474 fermati, 2189 arrestati e 1007 condannati, ma è certo che, tra il 1948 e il 1950, 15.000 oppositori politici sono condannati a 7.598 anni di carcere. La media supera quella del ventennio fascista. Nel 1966, quando gli effetti del Codice Rocco, sopravvissuto al regime, si trasformano in 12.981 lavoratori e 2.078 lavoratrici «perseguitati politici» in età repubblicana, diventa chiaro che l’Italia non ha mai fatto i conti con il fascismo.

Da un po’, negli archivi degli ospedali psichiatrici giudiziari spuntano fascicoli di partigiani che vi furono sepolti per la loro «pericolosità sociale», una formula indefinita, utilizzata da Rocco per colpire gli esponenti del dissenso e i comportamenti incompatibili con il modello fascista. Sciaguratamente lasciato in vita, il codice Rocco inchioda il controllo sociale al concetto di pericolosità e la giustizia penale è così securitaria e repressiva, che mentre la vita di una persona uccisa per omicidio colposo «vale» da 6 mesi a 5 anni di carcere, – quante morti bianche impunite! – il vetro di un bancomat, sfondato a calci in una manifestazione, diventa «devastazione e saccheggio», vale ben più di una vita e dal 2012 un ragazzo lo paga con 14 anni di galera. L’obiettivo è chiaro, ma calpesta i principi della Costituzione: difendere le classi dominanti. Costi quel che costi, anche una mostruosa sproporzione tra pena e reato.

La pena è sempre abnorme quando si tratta di una «persona socialmente pericolosa», anche se il reato non c’è e l’imputato non è tecnicamente colpevole: paga, perché è un intralcio per il potere, perché un sistema giuridico che utilizza basi pseudo-scientifiche, consente ogni discriminazione sociale, politica, etnica, culturale o religiosa e colpisce individui e gruppi incompatibili con il pensiero dominante. Il fascismo lo utilizzò come arma per colpire il dissenso, i governi neoliberisti, osserva Giuliano Balbi, puntano contro disoccupati, lavoratori ridotti a servi, emigranti, emarginati, homeless, prostitute di strada, autori di graffiti, lavavetri ai semafori, vagabondi, tossici e adolescenti delle periferie, prove viventi degli esiti disastrosi delle politiche di governi come quello di Renzi, che producono solitudine, povertà, esclusione e disperazione.

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