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Delocalizzazioni: antiche tradizioni della Penisola

Antiche tradizioni della Penisola: quando l'impotenza incrocia la propaganda, nascono norme destinate a essere disapplicate o annacquate

Con una frequenza tipica dei cicli di natura, in Italia si producono dibattiti su norme destinate alla disapplicazione, formale o sostanziale, oltre che su proposte di policy che appaiono semplicemente un richiamo a ultrasuoni per il proprio popolo, confuso o lucido che sia. Se poi si è in agosto, che tipicamente è il mese dell’anno in cui i giornali mandano in macchina l’altro caratteristico riflesso pavloviano, quello dell’incipiente “autunno caldo” (yawn), lo schema si riproduce con ossessiva regolarità.

Qualche mese addietro fu la proposta del segretario Pd, Enrico Letta, di aumentare la tassazione delle eredità per destinare il ricavato a “risarcire” quella che, con assai infelice scelta di marketing politico, egli ha chiamato la “generazione Covid” (e qui ci starebbe benissimo l’emoticon del celebre facepalm).

Proposta estemporanea, molto pavloviana, disorganica rispetto a un più generale ridisegno della fiscalità, ma che subito ha scatenato la canea dei domatori di teatrini televisivi, che vivono di stimoli quotidiani e di un lavoro logorante e anche piuttosto desolante. Ovviamente, nulla è conseguito se non la riaffermazione di una postura politica.

La bozza dell’editto

Oggi siamo impegnati a dibattere sul nulla di una fantomatica bozza elaborata dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando (Pd) e dalla pentastellata viceministra dello Sviluppo Economico, Alessandra Todde, mirata a regolare la cessazione di attività da di imprese e rami d’azienda non in dissesto; ché questi sono i termini della questione, credo.

Secondo una bozza di alcuni giorni addietro, le aziende con almeno 250 dipendenti a tempo indeterminato che intendono cessare l’attività “per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza”, quindi per motivazioni di strategia aziendale, devono notificare la decisione a lavoratori, ministero del Lavoro e dello sviluppo economico, Anpal, regione di insediamento, associazioni di categoria.

Si chiama “diritto di allerta”, e sin qui, nulla quaestio: diciamo che la comunicazione farebbe parte di un mondo normale. Occorre evitare “i licenziamenti a mezzo whatsapp”, è il mantra della politica. Che è giustissimo, per carità: la forma è sostanza. Nella sostanza, tuttavia, nulla di nuovo accade rispetto all’esistente, visto che in casi del genere si attivano le strutture pubbliche indicate, a vario livello.

La novità sta forse nel tentativo di avere un preavviso e non vedersi piovere in testa la decisione, per poi doverne rincorrere gli effetti, cioè l’avvio dei licenziamenti collettivi. La comunicazione deve indicare le ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative del progetto di chiusura; e il numero e i profili professionali del personale occupato e il termine entro cui è prevista la chiusura.

Riconvertiti sulla via di Invitalia

Ribadisco: mi pare tutto molto neutro e scontato. Entro 90 giorni dalla comunicazione, l’azienda deve presentare al Mise un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura del sito produttivo”. Il ministero ha 30 giorni per valutare il piano.

In caso di rigetto del piano, o di mancata presentazione del medesimo, l’impresa non può avviare i licenziamenti collettivi. Se contravviene a tale divieto, deve pagare il ticket licenziamento moltiplicato per dieci, ed ha precluso l’accesso a contributi, finanziamenti o sovvenzioni pubbliche di ogni specie per un periodo di 5 anni.

In che modo un’azienda può limitare le ricadute occupazionali ed economiche della sua decisione? Ingaggiando uno specialista che elabori un progetto di riconversione, immagino. Nei fatti, il problema si risolve mandando una Pec a Invitalia, che si mette all’opera per un fantasmagorico turnaround, come dicono quelli che hanno studiato, e liberi tutti.

Questo nel caso di interpretazione morbida della procedura. Se invece i pubblici poteri si pongono in modo da dare una lezione esemplare all’azienda antisociale, che accade? Nulla, sin quando la medesima non dichiara i licenziamenti collettivi. Prima di quella data, però, “qualcuno” avrà già provveduto a erogare la cigs, e vissero tutti felici e contenti.

Sboccia la Florange

Questo provvedimento è la scimmiottatura italiana della ormai celebre legge Florange francese, che negli intendimenti di François Hollande doveva impedire ad Arcelor Mittal di spegnere un altoforno in un suo sito francese nella omonima località della Mosella. Quella legge era limitata ad aziende di almeno mille dipendenti.

L’Italia ha già scimmiottato quella legge nel cosiddetto Decreto Dignità, altro esempio di norma che serve solo alla propaganda. In essa, la sanzione era prevista per aziende beneficiarie di aiuti pubblici e che delocalizzano fuori dalla Ue o dallo Spazio Economico europeo prima di cinque anni dalla conclusione dell’iniziativa agevolata.

Una fattispecie molto selettiva, come si nota, e che viene spiazzata da decisioni di chiusura da parte di aziende non beneficiarie di aiuti pubblici. Ah, detto incidentalmente, il Decreto Dignità è quella lista di gride manzoniane che ha parzialmente reintrodotto le causali nel tempo determinato, provocando una furiosa rotazione di precari. Evento del tutto imprevedibile, signora mia.

Non so come evolverà la nuova grida. Presumo verrà diluita, dopo appassionati dibattiti agostani alle feste di partito, e in attesa di tornare al circo dei talk politici. Nel frattempo, assisteremo al solito minuetto di posizionamento tra chi vuole che l’azienda che chiude venga incatramata e impiumata in diretta televisiva prima di essere nazionalizzata, e chi propone “gradualità” e “premialità” per chi non delocalizza (?), magari usando i fondi europei.

Punta-tacco

Al termine, resteranno la realtà e il movimento pendolare fatto di incentivi all’insediamento e minacce per chi decide di andarsene. In questo “punta-tacco” schizofrenico, il rischio di tenere lontane le aziende e produrre una selezione negativa di approfittatori sussidiati aumenta in modo non trascurabile.

Nel frattempo, ferve il dibattito anche su un altro grande equivoco italiano, le cosiddette “politiche attive” del lavoro. Che qualcuno ha deciso di interpretare come un magico mix di cassa integrazione straordinaria a oltranza (che è politica passiva per definizione) e leggendaria formazione, da assegnare magari ai soliti formatori noti e accreditati, in un revival di anni che furono. Occhio al risveglio e al cartellino del prezzo, mi raccomando.

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