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Debito pubblico italiano: le ragioni strutturali

Come si sa, il debito pubblico italiano (per il rapporto debito-Pil) è il terzo del Mondo con oltre 2.300 miliardi di euro e, nonostante i governi abbiano giurato di impegnarsi per ridurlo, da almeno 30 anni, non ha fatto che crescere, salvo la breve parentesi dei primi anni novanta, quando, con le privatizzazioni, qualcosa entrò in cassa ma senza che il debito sendesse in modo apprezzabile. Dopo è stato solo corsa in salita.

Perché? La ragione è molto semplice: perché lo stato ogni anno spende più di quel che incassa. E questo è una banalità, ma la vera domanda è perché lo Stato spenda tanto, nonostante le diverse commissioni per il taglio della spesa pubblica (si pensi a Cottarelli)? Il punto è che la nostra spesa è molto anelastica e presenta diverse rigidità formatesi in epoche successive.

La prima, storica, è quella dell’iper trofia della Pubblica amministrazione: siamo il paese europeo con il maggior numero di dipendenti per 100.000 abitanti e questo risale, per certi versi, già all’epoca liberale che gonfiò alcuni organici sia per ragioni di consenso, legate alla necessità di riassorbire, per quanto possibile gli apparati burocratici e militari degli stati preunitari, sia per le esigenze del nuovo Stato.

Poi una nuova spinta venne dal Fascismo che doveva assicurare sistemazione al suo seguito sociale e che si espresse essenzialmente nel dilatare la prassi giolittiana del “governare per enti” quel che generò la foresta del parastato.

Poi la Dc, per organizzare una robusta cintura di ceti medi da opporre al mondo operaio orientato a sinistra, largheggiò nelle assunzioni soprattutto nel sud ed a questo si aggiunse l’apparato burocratico delle Regioni (una riforma di cui possiamo dire ora definitivamente fallita) che si sommò agli altri apparati degli enti locali.

Negli ultimi anni la tendenza all’ipertrofia amministrativa si è quasi arrestata ma i ranghi sono restati dilatati e l’andata in pensione di una parte dei vecchi dipendenti non semopre rimpiazzati, da un lato ha ingrossato la spesa pensionistica, dall’altro è stata compensata dal ricordo al precariato ed alla folla dei consulenti ed esterni che affollano in particolare gli enti locali.

Insomma la Pa continua ad essere la prima ragione dell’eccesso di spesa e, ovviamente, è possibile far poco perché in gran parte il personale è illicenziabile per inderogabili principi giuridici. Di fatto le tensioni si scaricano sui precari, mentre i consulenti o pretesi tali sono spesso galoppini elettorali protetti dai partiti che li hanno inseriti e, dunque, manca la volontà politica per ridurli.

La seconda ragione strutturale è la spesa pensionistica su cui si scaricano molte scelte del passato, a cominciare dalla sciagurata norma di marca democristiana che consentiva ai dipendenti della Pa di andare in pensione dopo 19 anni, sei mesi ed un giorno di lavoro. Norma poi abolita, ma c’è ancora una discreta quota da smaltire, come, peraltro per le troppo facili pensioni di invalidità concesse a piene mani nelle regioni meridionali per contribuire al bacino elettorale della Dc.

D’altra parte, il metodo retributivo concedeva un trattamento pensionistico più generoso di quanto non fosse giustificato dalla contribuzione, questo perché si immaginava una economia in costante espansione, per cui le pensioni, più che dai contributi di chi andava in pensione, erano sostenute dalle trattenute pensionistiche di chi era in servizio e che, a sua volta, avrebbe goduto del gettito assicurato dalle generazioni successive, ma le cose sono andate meno ottimisticamente.

Qui non è il caso di sviluppare questo che è uno degli argomenti più complessi del dibattito politico, ci basta solo osservare che si può fare molto poco, oltre non rimpiazzare una parte di quelli che vanno in pensione dal pubblico impiego. Non sono possibili neanche tagli o riduzioni a chi già è in pensione o passare al contributivo quelli che sono andati in quiescenza con il metodo retributivo perché la pensione è un debito vitalizio dello Stato non rinegoziabile. E questo per ragioni giuridiche di rango costituzionale, almeno sino a quando ci sarà una Costituzione.

Al massimo si può, come una tantum, corrispondere una parte della pensione sotto forma di buoni di stato a basso rendimento, non cedibili ad a scadenza decennale, ma, oltre una soglia molto modesta questo potrebbe scatenare proteste molto vivaci.

Il terzo motivo dell’alta spesa pubblica è l’elevato costo del sistema sanitario: va detto che, per il livello di preparazione dei medici, per ampiezza di prestazioni e costi contenuti è uno dei migliori sistemi sanitari del Mondo, anche se organizzativamente è un disastro.

Ciò non toglie che il costo sia eccessivo rispetto alla prestazioni che vorremmo mantenere e migliorare, qui ci sarebbe da scavare soprattutto sul tanfo di corruzione che deriva da molti accordi con Big Farma con l’acquisti di farmaci a prezzi decisamente spropositati, e che deriva anche dagli acquisti di macchinari e da alcuni appalti di costruzione di nuovi ospedali. Magari una commissione parlamentare di inchiesta non ci starebbe così male.

Altra voce tradizionalmente molto pesante è quella delle opere pubbliche (che, negli ultimi anni della prima repubblica arrivò a sfiorare il 30% sul totale) e dell’odore di tangenti in questo campo non c’è bisogno di dire. Per di più, negli ultimi anni la frenesia delle “grandi opere” ha peggiorato le cose, soprattutto a danno della manutenzione che ormai è la cenerentola della spesa nel settore. Va da sé che di opere pubbliche di grandi dimensioni c’è bisogno sia per modernizzare il paese sia per sostenere la domanda nel settore delle costruzioni e del relativo indotto, ma c’è da chiedersi se siamo necessarie proprio tutte anche per il consumo di territorio (in 15 anni sono state costruite strade per una superficie pari all’estensione di una media provincia) e se il costo sia davvero congruo. Ed anche dopo una analisi molto attenta non sarebbe una cosa eccessiva, soprattutto in comparazione con i costi delle stesse opere negli altri paesi europei. Qui ci sarebbe davvero molto da risparmiare.

A queste voci “tradizionali” della spesa pubblica, negli ultimi anni se ne sono aggiunte altre due più recenti. In primo luogo la spesa politica che non è riducibile (come pensano i 5stelle) ad indennità e vitalizi ci parlamentari e consiglieri regionali, retribuzioni sicuramente molto alte, ma che riguardano poche migliaia di persone, quindi, voce di spesa in complesso non molto alta.

Il problema più serio è stato il massiccio aumento dei gettoni per i consiglieri degli enti locali, retribuendo stabilmente persino i consiglieri di municipi e quartieri. Poi c’è la voce delle profumatissime retribuzioni dei consiglieri di amministrazione delle 1.760 societèà collegate o controllate da enti pubblici locali e nazionali . Qui si tratta di circa 30.000 persone che percepiscono spesso compensi maggiori di quelli dei parlamentari, cui vanno sommati i compensi per le aziende comunali (anche sei comuni non capoluogo) ed i non miseri compensi della pletora di consulenti a vario livello, di cui dicevamo poco prima. Infine le retribuzioni di segretarie, portaborse, dipendenti di nasso livello a vario titolo collegati all’indotto della spesa politica.

Complessivamente, lo Stato retribuisce in forma diretta o indiretta fra le 300. 000 e le 500.000 persone (si tratta di stime, non di dati precisi) e con retribuzioni in genere più alte della media a corrispondente livello. In Italia spesa politica è sempre stata la più altra di tutti i paesi europei, ma la tendenza ha proceduto al galoppo negli ultimi venti anni con la spesa politica occulta degli enti e delle consulenze. E qui c’è da tagliare e molto, riducendo il numero delle persone ai vari livelli (siamo sicuri che un consiglio comunale della avere ben 80 consiglieri? Che i consigli di quartiere siano davvero così fondamentali? Che le società controllate non possano essere la metà?), sia l’entità delle retribuzioni. Se ci limitassimo a ridurre di 100.000 persone questa armata di burocrati e riducessimo mediamente di un quinto le loro retribuzioni è realistico pensare un taglio di circa 5-7 miliardi l’anno che non è poco.

Infine l’altra voce che ha preso il volo è quella della spesa per gli interessi sul debito. Se consideriamo sia il debito dello Stato centrale, sia quello degli enti locali, sia la Cassa Depositi e Prestiti, superiamo di slancio gli 80 miliardi l’anno. Qui è necessario fermare la tendenza ad un ulteriore indebitamento e recuperare il controllo delle dinamiche debito-interessi- Pil, magari introducendo forme di prestito forzoso a basso rendimento per buoni a scadenza decennale.

Considerando un intervento anche contenuto su tutte queste voci di spesa, senza incidere sulla spesa sociale se non marginalmente, è credibile un taglio della spesa di 60-70 miliardi l’anno è credibile. Magari discutiamone dati alla mano e non raccontandoci favole come la flat tax ed il reddito di cittadinanza. Beninteso, la pressione fiscale su imprese e ceti medi deve calare ragionevolmente e un intervento assistenziale limitato nel tempo e nella platea sono misure necessarie, ma non raccontiamo balle alla gente.

Aldo Giannuli

Questo articolo è stato pubblicato qui

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