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Debito pubblico e ricchezza media | Quei 40 miliardi di euro che servirebbero

Semplificando si potrebbe dire che nel 2016 lo Stato si è impoverito, mentre i cittadini mediamente si sono arricchiti.

di Rocco Artifoni

Un’analisi applicata a intervalli di tempo più estesi e al valore complessivo del debito pubblico e del patrimonio privato, porterebbe alla medesima conclusione.
Infatti, alla fine del 2016 il debito dell’Italia ha raggiunto quota 2.174,8 miliardi. La ricchezza delle famiglie italiane ha superato 10.000 miliardi di euro (circa 6.000 in immobili e 4.000 in liquidità). In altri termini il debito pubblico pro-capite – dato che i residenti in Italia sono 60,6 milioni – è quasi di 36 mila euro. Contemporaneamente la ricchezza media è di 165 mila euro: 99 mila in immobili e 66 mila in contanti, conti correnti, depositi, titoli e azioni.
Sempre semplificando si potrebbe anche pensare che sarebbe saggio smetterla di accumulare debiti collettivi e soldi privati, due vasi comunicanti nei quali uno è sempre in perdita e l’altro quasi sempre in attivo. Metaforicamente si potrebbe dire che il rubinetto della fontana pubblica è sempre aperto mentre alcuni cittadini raccolgono l’acqua nelle cisterne.
Come si può fare per razionalizzare il flusso dell’acqua, riequilibrando i conti della cassa comune?


Le soluzioni possono essere diverse, per esempio intervenendo in modo più consistente sui patrimoni di mafiosi, corrotti ed evasori. Anche soltanto quest’ultima voce corrisponde a molto di più dei 40 miliardi di euro che servirebbero per pareggiare il bilancio pubblico.
In attesa di riuscire a recuperare il maltolto, si potrebbe comunque intervenire chiedendo un maggiore impegno di solidarietà (che la Costituzione indica come “dovere inderogabile”) a chi dispone di maggior ricchezza e di conseguenza maggiore capacità contributiva.

Per esempio, se al 25% dei contribuenti italiani con i redditi più elevati (cioè circa 10 milioni di persone su un totale di 40,2 milioni di dichiarazioni presentate) venisse aumentata l’aliquota fiscale in modo progressivo da 2,5 a 12,5 punti in percentuale, a parità di deduzioni e detrazioni si avrebbe una maggiore entrata fiscale di 41,9 miliardi di euro. L’aumento delle aliquote più elevate in realtà non farebbe altro che ripristinare le aliquote in vigore nel secolo scorso, che progressivamente sono state tagliate.
In realtà, non ci sarebbe bisogno di aumentare le aliquote fiscali. Basterebbe che quelle attuali venissero applicate al cumulo di tutti i redditi di ogni contribuente. Invece, la tendenza in atto negli ultimi anni è stata quella di introdurre tassazioni separate, proporzionali o addirittura forfetarie per diverse tipologie di redditi: d’impresa, per gli affitti degli immobili e sugli interessi. Siamo arrivati al punto che il criterio costituzionale della progressività si applica di fatto esclusivamente ai redditi dei pensionati e dei lavoratori dipendenti.
Da quando nel 2012 è stato introdotto in modo esplicito nella Costituzione l’obiettivo cosiddetto del pareggio (che in realtà sarebbe l’equilibrio) di bilancio, all’appello mancano ogni anno circa 40 miliardi di euro. Molti hanno criticato questa modifica della Costituzione, ignorando però che proprio il raggiungimento dell’equilibrio finanziario tra entrate e uscite è la premessa indispensabile per diminuire le imposte e per incrementare i servizi ai cittadini.

D’altra parte è del tutto evidente che ogni deficit annuo porta all’aumento del debito, che tendenzialmente comporta un aumento degli interessi e di conseguenza un potenziale ulteriore deficit nell’anno successivo. Si tratta di un circolo vizioso che ci ha portato all’attuale situazione assurda, in cui circa il 75% del debito è dovuto al cumulo degli interessi sugli interessi. John Adams, il secondo Presidente degli Stati Uniti d’America, aveva colto la gravità del problema: “ci sono due modi per rendere schiavo un popolo: uno è la spada, l’altro sono i debiti”.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di pv21 (---.---.---.5) 11 settembre 2017 19:47

    Tenere botta >

    Termini come posti di lavoro e occupati non bastano, da soli, a fotografare tutta la realtà. Ad esempio, nelle rilevazioni a fini statistici, rientrano tra gli occupati anche coloro che lavorano 1 settimana al mese, oppure a orario ridotto, oppure a termine.

    Per non parlare della difformità dei redditi erogati a fronte di prestazioni del tutto analoghe.

    In particolare.


    Ci è stato appena ricordato che dal 2008 al 2013 sono stati persi 1,09 milioni di posti di lavoro, ma che oltre 900 mila sono stati recuperati negli ultimi 3 anni. Ovvero, che il numero degli occupati è di nuovo risalito alla soglia dei 23 milioni del 2008.


    Peccato che nel 2008 il tasso di disoccupazione era del 6,7% mentre nel citato triennio ha oscillato tra l’11 e il 12%. Questo nonostante le molte migliaia di soggetti (inattivi) che hanno addirittura rinunciato a cercare un lavoro.


    E ora?

    Il vero banco di prova sarà la legge di Bilancio.

    Tutto da scrivere il finale de La crisi – Atto secondo

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