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Crotone: analisi del territorio e del voto

Secondo i dati del fisco italiano, in merito al reddito imponibile medio dichiarato dai contribuenti nel 2014, quello più basso nella regione Calabria appartiene a quelli della provincia di Crotone. I vibonesi, che si classificano penultimi in quella speciale classifica, sono mediamente più ricchi dei crotonesi di quasi mille e seicento euro all’anno. Che si tratti di un altro “primato pitagorico”, di un dato incontrovertibile, non c’è dubbio, e che esso vada indagato, disaggregato e analizzato per singolo aspetto, sarebbe cosa buona e giusta.

Perché stiamo parlando del 2014 e nei due anni che seguono non un solo posto di lavoro, che sia uno, è stato creato. Piuttosto si è licenziato e si dovrà licenziare ancora qui da noi; hanno chiuso aziende; altre, come la società di gestione dell’aeroporto, pendono dalle labbra del tribunale, oppure sono in liquidazione pur essendo partecipate da enti locali. Fenomeno emergente è poi l’accumulo di spettanze arretrate per i pochi fortunati che un posto di lavoro, almeno sulla carta, ce l’hanno. Insomma: una realtà locale sull’orlo del fallimento alla quale i dati fiscali non rendono giustizia, poiché si riferiscono a redditi accertati e, presumibilmente, non pienamente percepiti. Una stagnazione sociale ed economica che ha raggiunto picchi da continente nero.

Un territorio che si era accontentato di galleggiare sulla dislocazione amministrativa dello Stato dopo l’elevazione a Provincia e che ora soffre dello smantellamento progressivo dei presidi istituzionali così come aveva patito le pene dell’inferno con la deindustrializzazione. Nel 1993 le prospettive di sviluppo della provincia crotonese e la ripresa produttiva del capoluogo furono saldamente ancorate a tre assi di sviluppo: terziarizzazione (istituzione di presidi statali); bonifica dei siti industriali dimessi e contestuale dislocazione di insediamenti manifatturieri; industria turistica, secondo una presunta, innata vocazione del territorio.

Da quei patti per lo sviluppo è trascorso quasi un quarto di secolo e dopo un “giro di giostra” sulle montagne russe del benessere socio-economico, l’unica cosa che sembra essersi sviluppata a dismisura è l’appetito; o “pititto” come si dice in dialetto. Perché a Crotone troppe famiglie sono addirittura alla fame; anche quelle che teoricamente hanno un sostentamento salariale che però non è corrisposto mensilmente.

C’è dunque “pititto” a Crotone, ma c’è anche il lusso: una squadra di calcio che giocherà in serie A; uno specchio d’acqua che è campo di regate veliche internazionali (con le trivelle che fanno da boe) ; la velleità di divenire capitale della cultura (con un antico borgo che puzza di vomito, di piscio e quando va bene di pesce azzurro arrostito); con una parco archeologico dove il duello tra tufo e calcestruzzo, tra azzurro del mare e grigio del cemento è divenuto improponibile. Tra lusso e “pititto” ci si può semplicemente disperare (ed è questo il sentimento inconscio che alberga nel cuore dei crotonesi) oppure cogliere le opportunità per azzerare uno e godersi serenamente, quanto meritatamente, l’altro.

Però è davvero strano, ancorché inspiegabile che la città delle trivelle; che dovrebbe puntare tutto il suo futuro sul turismo; che convive da un quarto di secolo con insediamenti estrattivi che lasciano briciole e poche mance al territorio che le ospita e subisce, ci si conceda il lusso di disertare le urne sul referendum che doveva porre fine alla dannosa presenza dei pozzi che succhiano gas dal sottosuolo; che provocano subsidenza; inquinamento e depauperamento dello sky-line del mare crotonese.

Quello stesso mare che lo scrittore Elio Cortese, rifacendosi a Sbarbaro, Pasolini e Rebora, definiva un fiordaliso, ma che per malanni recenti e attuali (lo scoppio sistematico delle fogne in estate) si trasforma, quantomeno annualmente, in un brodo di merda. In Trentino alto Adige al referendum sulle trivelle ha votato il 25,2 per cento degli elettori, la percentuale più bassa d’Italia, ma lì si può capire perché il mare lo vedono solo in cartolina, come in Val d’Aosta che, pure con il suo 34 per cento di elettori recatisi alle urne, si è piazzata tra le regioni con la più alta affluenza alle urne. Fanalini di coda, in questa tornata referendaria, sono diventati Campania (26,1 per cento) e Calabria (26,7 per cento); magari il disinteresse degli elettori campani è giustificato dall’assenza di trivelle nel mare Tirreno; la quasi totalità di impianti estrattivi è concentrata nell’Adriatico, fatta eccezione per la Sicilia, con Gela, e la Calabria con Crotone.

Ebbene: il dato sull’affluenza alle urne per il referendum del 17 aprile per l’intera provincia crotonese si è fermato a un desolante 24 per cento. Nel capoluogo pitagorico, invece, ha votato il 32,20 per cento degli aventi diritto; ma avrebbe dovuto essere un plebiscito, visto che Crotone, come detto, punta tutto sul turismo. Stando così le cose, alla luce di quanto riferito all’inizio partendo dai dati sul reddito medio dei crotonesi, l’unica cosa che resta da fare è puntare…un’arma alla propria tempia; il turismo è una cosa seria, un comparto produttivo e industriale che implica cure, strategie e attenzioni. Crotone ha dimostrato ancora una volta che preferisce ostentare un lusso effimero che non può permettersi, almeno non prima di aver chiuso i suoi conti con il “pititto”.

 

Foto: Wikipedia

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