Cronaca di una fede dimenticata | La Trovatella a Sapri
Un angolino di puro incanto ad avvicinarla fiancheggiando l’uliveto che, riverente, lo ripara da ogni sguardo pur indiscreto e le cui memorie si perdono in un mare verde intenso d’erba spontanea, che l’ammanta al sol fremente. Quel che si presenta poi all’occhio ignaro, inattesa e sconvolgente, è la nuda realtà di un luogo inequivocabilmente abbandonato, spogliato, dimenticato. Tale è la dimensione percepibile dell’oblio da investire ogni senso, da togliere il fiato, da evocare già la sensazione di un tempo, di uno spazio, distopico, postapocalittico…
facciate imbrattate a prestar la tela improvvisata
tracce di roghi accesi a render gaia la festa
una pletora di rifiuti abbandonati e pur depositati intenzionalmente
la memoria di una preghiera quotidiana strappata alla sua terra ai piedi della croce
una campanella arrugginita e ammutolita dacché tempo di fianco al portale d’un ingresso
e, mollato lì pure lui, il frammento di una lapide in pietra con iscrizione, a testimone di un’opera di trafugamento più che di sepoltura.
Quel che inoltre, lì increduli, affligge i sensi è la disarmante franchezza d’una necessità a riconoscere che lo stesso luogo, lo stesso lembo di terra, di un incanto naturale da invitare spontaneamente a una preghiera, a una meditazione, a una riflessione, tal perduto più che trovatello, si trovi a languire in pieno centro abitato, con la strada principale che lo costeggia e fiotti d’anime che la percorrono, andata e ritorno, incessantemente.
Il cuore già si stringe, uno strano brivido invade il corpo di colui or lì immobile, ai suoi piedi sì abbandonata quella stessa fede che il luogo incarna. Una fede che non è principio, non è confessione, non è religione, ma fiducia intima e profonda nel divino onnipresente, accogliente e mai nemico, una stessa pure dentro che quest’Uomo ha smarrito, ha abbandonato, ha dimenticato. Al suo posto ora celebra, tanto cieco quanto arbitrario, una ragione onnisciente, con il pensiero e il giudizio suoi servi già castranti. E in preda a mille paure, talune reali, le più immaginate, si affanna, si dispera, si consuma nei dolori e nelle sofferenze, certi reali, i più immaginati. E travolto dall’ansia e dall’angoscia, dall’incertezza e dall’ignoranza, di un domani sola invenzione, si nasconde, si trincera, si chiude pure a sé stesso e al mondo che serba in dote, sempre prospero e mai miseria. E non son salvi nemmeno loro, pellegrini e pie genti, pur nelle mani d’un Signore a cullarsi si dicon certi, quando, in realtà, corron lesti già all’alba d’ogni temporale, sempre in cerca di un riparo.
A mirarlo nella luce, questo luogo così deserto, non sorprende che già lui ebbe a domandarsi, Figlio noto d’uno stesso Dio, adagiato il capo sul guanciale a poppa, sulla barca in mezzo alla tempesta, perché fossero così paurosi – ancora non avete fede?
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