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Covid-19 nelle case di riposo: in che “Fase” siamo?

Gli ultimi dati sulla situazione Covid-19 nelle case di riposo.

di Federica Lavarini

Siamo ancora ufficialmente in una situazione di pandemia: l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), che ha ricevuto critiche feroci provenienti da ogni direzione per la gestione delle direttive durante l’emergenza, non ha ritirato l’allarme; il virus Sars-Cov-2 sta ora colpendo duramente oltreoceano, in particolare l’America Latina, molto lontana da noi, e il concomitante rallentamento della diffusione del virus alle nostre latitudini pare quasi ci autorizzi a dimenticare una volta per tutte le precauzioni che abbiamo sentito ripeterci ossessivamente in questi ultimi mesi: igiene delle mani, distanziamento sociale, mascherine. La “Fase 2”, per molti di noi iniziata il 4 maggio 2020 dopo 55 giorni di quarantena, per qualcuno non è ancora iniziata e non si sa quando, e come, inizierà. Non è iniziata per molti degli anziani ospiti delle case di riposo, e nemmeno per i loro figli e i loro nipoti, che da pochissimi giorni hanno ricominciato, in maniera contingentata, a rivedere i propri cari. Come nel caso del Pio Albergo Trivulzio (PAT) di Milano che sui media è diventato il luogo simbolo della grave crisi di gestione dell’emergenza sanitaria creata dal Covid-19 nelle case di riposo e nelle residenze socio-assistenziali.

Dal 4 maggio, le visite nelle RSA sono ufficialmente consentite – come è consentito andare al bar o al ristorante –, ma l’uscita dal lockdown per queste si è rivelata lenta e complessa e richiede, oltre a un grande sforzo per riorganizzare l’attività di ingresso dei familiari, di capire che cosa sia successo in questi mesi nei luoghi dove si pensava che gli anziani potessero essere protetti e accuditi. In Italia, le cifre ufficiali parlano di migliaia di anziani deceduti per aver contratto l’infezione da Covid-19 all’interno delle case di riposo, ma il virus potrebbe aver causato molte più vittime di quello che riportano le statistiche.

Gli ultimi dati della Sorveglianza integrata COVID-19 dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) dall’inizio dell’epidemia riportano 31.680 decessi per coronavirus nelle fasce di età tra i 60 anni e gli over 90 con una letalità media del 25%. In questo momento, in cui la pandemia ha dato una tregua, “una raccolta sistematica dell’informazione sul luogo di esposizione permetterebbe una valutazione più accurata dei contesti in cui sta avvenendo la trasmissione della malattia” afferma il rapporto. Ed è significativo come tra maggio e giugno, il luogo dove si registrano i maggiori contagi sono ancora le case di riposo e le comunità per disabili (39,2%), decisamente superiore (5,8%) ai contagi avvenuti in ospedale o in ambulatorio.

Al contempo, al quarto e conclusivo rapporto del 5 maggio della Survey nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie sempre dell’ISS, che ha coinvolto 3292 RSA (96% del totale) in tutto il territorio nazionale, sono giunte le risposte del 41,3% delle strutture – ovvero 1356, di cui 92 private. L’adesione all’indagine era su base volontaria e nel terzo report del 14 aprile si spiegava la non partecipazione di molte strutture con la scarsa disponibilità di tempo del personale impegnato nella gestione dell’emergenza epidemica.

Dal 1° febbraio al 5 maggio 9154 residenti sono deceduti, di cui 680 risultati positivi al tampone e 3092 con sintomi simil-influenzali. La percentuale maggiore di decessi, sul totale, è stata registrata in Lombardia (41,4%), Piemonte (18,1%) e Veneto (12,4%).

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“Il sistema delle case di riposo non ha funzionato, non ha protetto i nostri anziani, ha evidenziato tutti i suoi limiti e va riprogettato” ha affermato nella conferenza stampa del 16 giugno scorso Alessandro Azzoni, presidente di “Felicita – Associazione per i diritti nelle RSA”, evoluzione del “Comitato Verità e Giustizia per le vittime del Pio Albergo Trivulzio”, di cui è stato fondatore e portavoce. Gli ospiti del PAT sono stati più di tre mesi senza vedere i propri parenti: “La dirigenza non ha mai voluto darci notizie su come stavano i nostri cari” prosegue Azzoni, “si è sempre rifiutata di parlare con noi e, allo stesso tempo, avevamo notizie da altri parenti di numerosi decessi. Dai primi di gennaio fino a maggio sono morte 435 persone al PAT, senza contare i decessi avvenuti negli ospedali. Questo ci ha fatto vivere con una fortissima angoscia”.

Che valore hanno gli anziani, la vita degli anziani, nella nostra società? Sono vite che importano? Sono queste le domande da cui prende le mosse l’associazione “Felicita”, quasi parafrasando Susan Sontag e il suo saggio La terza età (Einaudi, 1971), e alle quali, forse, sta già dando una risposta. “Queste RSA così grandi, pensate con logiche di massa, vanno assolutamente riviste. Bisogna ricominciare da servizi territoriali e di assistenza domiciliare. Non dimentichiamo che la persona anziana non autosufficiente è un macigno enorme per una famiglia” afferma Azzoni. “Gli anziani sono soggetti fragili, esseri umani con parità di diritti e, a partire da loro, va riaffermata la centralità dell’essere umano, della persona e delle cure. Questa esperienza delle RSA lombarde dovrebbe portarci a riflettere e a rivedere la cultura dell’assistenza e dell’anziano”.

Un recente studio dell’International long-term care policy network, basato sui dati ufficiali di 19 Paesi, suggerisce come nei Paesi con un minor numero di decessi nella popolazione generale corrispondano anche meno decessi per Covid-19 nelle residenze per anziani. Nel caso dell’Italia è stato preso in considerazione il Rapporto Istat-ISS del 4 maggio, dove sono emerse le differenze drammatiche tra decessi nel primo trimestre del 2020 e lo stesso periodo nel triennio 2015-19. Nei centri più colpiti dall’epidemia, come Bergamo, Cremona, Lodi, Brescia, Piacenza, Parma, Lecco, Pavia, Mantova, Pesaro Urbino è stato pagato “un prezzo altissimo in vite umane, con incrementi percentuali dei decessi nel mese di marzo 2020, rispetto al marzo 2015-2019, a tre cifre”.

Uno studio pubblicato dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (CERGAS) dell’Università Bocconi di Milano ha messo in evidenza come uno dei maggiori problemi nella gestione di Covid-19 in Italia sia stata l’assenza di coordinamento tra le strutture preposte alla cura. Tutti gli sforzi si sono concentrati sulle strutture ospedaliere, di cui si è cercato di preservare la sicurezza e la capacità di rispondere alla pandemia. In alcune Regioni si è deciso di non permettere agli anziani che si trovavano in strutture residenziali di accedere agli ospedali, prevedendo invece di gestire anche i casi gravi direttamente nella struttura, senza poter accedere al Servizio Sanitario Nazionale. Al contrario, a molte strutture per lungodegenti è stato chiesto di ospitare pazienti provenienti dagli ospedali, creando reparti per malati Covid-19. A questa richiesta, molti responsabili delle strutture hanno rifiutato alla luce della mancanza di staff e dispositivi medici adeguati.

“La domanda a cui io non ho ancora dato risposta è: come posso conciliare la sicurezza della persona in un momento di pandemia con l’elemento della socialità, connaturata alle strutture per anziani? Come posso mettere in pratica il distanziamento sociale con il contatto, l’affettività e la relazione interpersonale che si costruisce tra l’operatore e l’anziano degente e di cui questo ha necessità?”. Sono le domande che si pone Emilio Tanzi, direttore generale di Cremona Solidale, l’azienda del Comune di Cremona che gestisce le case di riposo e che da metà aprile è sotto inchiesta della magistratura a seguito dei molti decessi registrati. Tanzi, nonostante il consiglio d’amministrazione dell’azienda municipale abbia deliberato il silenzio stampa, accetta di essere intervistato da OggiScienza, ma non come direttore generale, bensì come ricercatore nel campo della governance socio-sanitaria, il tema che sta a monte del problema.

Dottor Tanzi, come legge la situazione di emergenza che ci stiamo lasciando alle spalle?

Devo dire che noi ricercatori del CERGAS dell’Università Bocconi di Milano non siamo stati formati alla gestione delle crisi in ambito sanitario, non è un caso che in questo periodo alcuni abbiano evocato situazioni di emergenza come l’epidemia di Ebola in Africa. Ecco, credo che noi avremo molto da imparare dalle esperienze nei Paesi del Terzo Mondo nella gestione di crisi come quella di Covid-19. Dovremo sicuramente strutturare la formazione in questo senso: dalle competenze professionali all’organizzazione della logistica; dalla gestione dello stress individuale e all’interno dei team, all’uso dei dispositivi di protezione individuale; dalla gestione della comunicazione in momenti di emergenza fino alla comunicazione con i parenti e alla formazione per i medici di medicina generale. È una consapevolezza che abbiamo raggiunto sul campo, learning by doing, e che sicuramente ci guiderà nel nostro lavoro per molti anni a venire.

La pandemia ha portato i nodi al pettine del nostro sistema sanitario nazionale? Che cosa non ha funzionato?

Si è vissuto il problema Covid come un problema sanitario inteso come ospedaliero, dimenticando che un problema sanitario è, in realtà, socio-sanitario ovvero sia degli ospedali, dove si trattano le fasi acute e più gravi della malattia, sia di tutta la rete dei servizi dell’assistenza territoriale e a domicilio. Per lungo tempo le realtà territoriali e semi-residenziali sono state in un cono d’ombra: è un retaggio culturale che non si può cambiare perché c’è un’emergenza, anzi è proprio in questo momento che si evidenzia ancor più la discrasia del sistema. Covid-19 è un virus che ha colpito soprattutto gli anziani e, purtroppo, le realtà come le RSA e le case di riposo sono state per troppo tempo ignorate. La Lombardia è un caso paradigmatico di quello che descrivo: un modello d’eccellenza a livello internazionale in ambito ospedaliero, ma non altrettanto sull’ordinaria amministrazione. Inoltre, ormai non possiamo più parlare di sistema sanitario nazionale, ma regionale e l’epidemia ha evidenziato un altro problema, tutto italiano, collegato a questo: i dati epidemiologici non permettono una lettura univoca perché abbiamo tanti sistemi di lettura differenti, basti pensare ai conteggi sui tamponi positivi e sui decessi.

La nostra società, specie in Italia, è sempre più anziana. Dopo il Covid-19 che cosa non è più rinviabile?

Le RSA vivevano un enorme problema di identità già prima dell’epidemia, ora ancora di più: non sono strutture di cura, perché non sono degli ospedali, ma allo stesso tempo hanno bisogno di assistenza medica continuativa. Tuttavia, trovare medici geriatri è molto difficile per cui credo che il sistema di accesso alle scuole di specializzazione debba essere rivisto in funzione di una crescita del numero di geriatri e dei medici di medicina generale, di cui avremmo avuto molto bisogno in questo momento. Ugualmente difficile è trovare infermieri disposti a lavorare nelle strutture per anziani perché, dopo tre anni di formazione universitaria, è chiaro che un posto in sala operatoria è più appetibile che fare il “dispensatore di pillole” (come viene chiamato in gergo) in una RSA. Credo si debba fare una profonda riflessione su quale sia il ruolo della sanità territoriale, delle RSA e delle case di riposo, tutti luoghi in cui sono necessarie peraltro delle soft skill legate all’accudimento dei degenti: empatia, capacità relazionali e di comunicazione sono tutte competenze su cui l’operatore deve essere formato e che ora non è.

Perché c’è una così forte presenza del privato in questo settore?

Si tratta di un settore anticiclico che non ha risentito della crisi, anzi le realtà multinazionali, anche straniere, stanno investendo da anni, si assume molto e ci sono posti di lavoro non coperti. Forse a causa del Covid qualcosa potrebbe cambiare, ma non siamo in grado di dirlo in questo momento.

È etico ragionare in termini di bilancio quando si ha a che fare con soggetti fragili, non autosufficienti?

Da decenni viviamo con il pregiudizio che “privato” è “cattivo” e “pubblico” è “buono”: il buono o il cattivo ci può essere sia nel settore pubblico che in quello privato, ma il privato non potrà mai assumere la funzione pubblica, che fa capo allo Stato e alle sue diramazioni che sono le Regioni e le Aziende sanitarie regionali. Sono queste strutture che hanno la responsabilità della governance, a loro spetta il compito di dare le regole e vigilare affinché queste vengano rispettate. Sono le modalità di gestione della struttura sanitaria, pubblica o privata, a farne una buona o cattiva realtà, non la natura giuridica.

Immagine: Pixabay

 

 

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