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“Così sono guarito da una misteriosa malattia”. Silenzio, meditazione, ascolto

Può apparire pretenzioso il titolo “Insegnaci la quiete” (autore Tim Parks – editore Mondadori) per un libro autobiografico che racconta il percorso di un uomo tormentato da anni da misteriosi dolori, alla fine guariti percorrendo strade al di fuori della medicina ufficiale.

Tim Parks giornalista, scrittore, traduttore (insegna allo Iulm) inglese di nascita italiano di adozione, nel bel mezzo dell’età matura viene colpito da una malattia “immaginaria” senza riscontri analitici precisi nel giudizio degli specialisti che l’hanno in cura da molti anni.

Nessun medico esprime una diagnosi specifica, molti azzardano ipotesi da verificare con il supporto di un numero sempre maggiore di esami estenuanti e soprattutto umilianti perché il problema lamentato da Parks coinvolge la parte più corporea e carnale del suo corpo: le viscere.
 
Tim Parks che ama sport estremi come il kajak e per carattere adora le sfide che lo coinvolgono al limite del rischio, è quasi rassegnato alla sofferenza finché un giorno… la salvezza gli si prospetta alla lettura del libro di due psicoanalisti americani.
 
Con l’aiuto del libro che invita alla riflessione, ma soprattutto con la considerazione delle malattie, solo apparentemente incurabili, di autori di genio come Leopardi, Thomas Bernhard, Coleridge, Tim Parks sviluppa un’idea della sua malattia molto lontana dalla medicina tradizionale. Anzi, ne deriva una visione quasi metafisica, che oltre la corporeità coinvolge la psiche, il carattere, l’educazione ricevuta, lo stile di vita.
 
Da questa illuminazione l’autore si avvia verso una “terapia” che non ha niente a che vedere con quanto sperimentato fino a quel momento. Trovandosi in India, a Delhi Parks fa visita a un medico che applica la medicina ayurvedica. Il dottor Hazan lo ascolta mentre Parks racconta il suo calvario e alla fine guardandolo fisso negli occhi dice: lei non riuscirà mai a risolvere il suo problema finché non avrà affrontato la profonda contraddizione che mina il suo carattere.
 
 
E’ così che attraverso la meditazione, il silenzio e soprattutto l’ascolto attentissimo del proprio corpo, Parks arriva a comprendere che l’origine della sofferenza non è una mera disfunzione, bensì qualcosa di più profondo e totale che risale all’educazione, al padre “dominante”, alle idee preconcette che gli si sono stratificate negli anni e soprattutto al conflitto che attraversa il suo carattere.
 
Il libro di Parks è un commovente percorso umano all’interno della psiche nel quale l’autore non si risparmia nulla fino a sembrare impietoso. Si imparano così molte cose sulle nostre insane abitudini di vita, frenetiche, tese al massimo della prestazione e al conseguimento di un traguardo prefissato al di fuori dei propri reali limiti e desideri.
 
Ma soprattutto “Insegnaci la quiete” avverte che le parole dette senza troppo riflettere sul loro autentico significato, ci allontanano da una realtà essenziale: noi siamo il nostro corpo. Sbagliamo quando per sicurezza ci affidiamo al solo ragionamento logico.
 
Ho chiesto a Tim Parks che valore rappresenta la parola per la comprensione della realtà. Ecco le risposte: 
 
Se ho ben capito lei dice che la "parola" toglie vigore alla realtà. Anzi è una mediazione con la realtà. E' così?

Non esattamente. Non toglie vigore alla realtà. E’ un'altra realtà, mentale, che cerca di ricostruire o rappresentare altri elementi reali, o fisici o mentali. O semplicemente di proporsi. Concentrandosi sempre di più sulla parola, o su un lavorio mentale costruito da parole, uno potrebbe trascurare le sensazioni immediate.

C'è differenza tra "il momento sulla terrazza a Maroggia" (qui l’autore ha seguito un corso di meditazione ndr) e la descrizione (a parole) che si legge nel libro?
La stessa differenza che c’è tra ogni evento e la sua ricostruzione in parole. Per me l’esperienza era immediata e soverchiante. Non potevo sottrarmi alla situazione. La ricostruzione è tutt’altra cosa. Fa appello all’esperienza del lettore invitandolo ad immaginare un simile evento. Ma ogni lettore lo leggerà diversamente secondo il suo passato, il suo rapporto con le singole parole, le circostanze della propria vita. E per quanto si senta forse coinvolto o addirittura commosso, non ci sarà la stessa intensità di coinvolgimento.

C'è forse una contraddizione tra il bisogno di scrivere il libro e quanto ha imparato dalla sua esperienza di meditazione? Una contraddizione tra il suo "io vanitoso" e il bisogno di silenzio?
Un paradosso, senz’altro, come c’è un paradosso nel lavoro di uno scrittore come Beckett che vede ogni testo scritto come qualcosa rubato al silenzio. Dall’altra parte, la lezione di quei ritiri a Maroggia e in Toscana è stata: quanta vanità e ossessività c’era nel mio rapporto con le parole. Questo non vuol dire che uno non può cercare di usare le parole in uno spirito un po’ diverso, magari con meno sfogo dell’ego.

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